giovedì 24 settembre 2020
Nella provincia ribelle turcofona, gli uighuri restano al centro dell'offensiva per la “cinesizzazione”. Uno studio dell'Australian Strategic Policy Institute rivela i numeri dell'orrore
Dal satellite. Un'area di detenzione e rieducazione destinata agli uighuri che non accettano di integrarsi pienamente nella cultura cinese e accettare la politica del governo di Pechino e del Partito comunista cinese

Dal satellite. Un'area di detenzione e rieducazione destinata agli uighuri che non accettano di integrarsi pienamente nella cultura cinese e accettare la politica del governo di Pechino e del Partito comunista cinese - ASPI / The Xinjiang Data Project

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E' la faccia più opaca del regime cinese. Quella che combina la “cinesizzazione” di regioni culturalmente ed etnicamente refrattarie al dominio di Pechino con l’uso massiccio del lavoro forzato. La denuncia – l’ultima in ordine di tempo – arriva Australian Strategic Policy Institute. La Cina ha costruito o ampliato 380 campi di internamento dal 2017 nella regione autonoma nordoccidentale dello Xinjiang. Secondo lo studio, altri 14 sono in fase di costruzione e, in totale, 61 di queste strutture sono state costruite o espanse tra il luglio 2019 e il luglio 2020.

Di queste ultime, circa la metà sono strutture ad alto grado di sicurezza, mentre settanta avrebbero ridotto le misure di sicurezza. Il numero complessivo dei centri di detenzione supera di circa cento le precedenti stime, e i ricercatori ritengono di averne identificato la gran parte presente nell’area. Le rivelazioni sono contenute in un database, lo Xinjiang Data Project, che si basa su fonti aperte, tra cui anche immagini satellitari, documenti del governo cinese, statistiche ufficiali, studi accademici e testimonianze di chi è stato rinchiuso in questi centri ed è fuggito all’estero. Molti dei centri identificati dallo studio sorgono nei pressi di parchi industriali o di fabbriche della regione, particolare che rafforzerebbe il collegamento delle persone internate al lavoro forzato.

La mappa delle strutture di detenzione realizzate da Pechino per gli uighuri

La mappa delle strutture di detenzione realizzate da Pechino per gli uighuri - The Xinjiang Data Project xjdp.aspi.org.au/

Una “politica”, quella del gigante cinese, che non conoscerebbe tregua. Lo scorso anno il New York Times aveva intercettato una fuga di documenti interni del Partito Comunista cinese nel quale veniva scattata una “fotografia” impietosa della repressione cinese: arresti di massa, figli sottratti ai genitori, intere famiglie rinchiuse.

Un milione di uighuri (ma anche kazaki e appartenenti ad altre minoranze musulmane) sarebbero stati rinchiusi. Semplici campi di formazione professionale per recuperare persone scivolate nel radicalismo islamico, per Pechino. Vere e proprie prigioni, per gli attivisti per i diritti umani.

L’Australian Strategic Policy Institute cataloga i campi in quattro diversi tipi, dal livello 1 (il più basso) al livello 4, le prigioni di massima sicurezza, munite di mura alte fino a 14 metri, contornate di filo spinato e con torri di guardia. Il più grande campo della regione è a Dabancheng, poco fuori dal capoluogo regionale, Urumqi.


Nei giorni scorsi la Camera dei Rappresentanti Usa ha dato un primo via libera al divieto di importazioni dallo Xinjiang, proprio per il rischio di alimentare il lavoro forzato nella regione, e la legge, lo Uyghur Forced Labor Prevention Act, è in attesa dell’approvazione al Senato di Washington.

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