lunedì 11 maggio 2009
«Don’t forget»: la moglie Khwan si sfoga in inglese e con i pochi vocaboli italiani che ha imparato da quando si è chiusa nella casa di Montevarchi spiega: «L’Italia non può cancellare Eugenio dalle pagine dei giornali».
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    «Babbo, babbo». Non ha ancora due anni, Letizia. Eppure, appena qualcuno apre sul tavolo della cucina l’album di famiglia con la foto di Eugenio Vagni, lei sorride e lo indica a chi la tiene in braccio. Sono quasi quattro mesi che Letizia aspetta suo padre. O meglio, 115 giorni. Lo ricorda agli ospiti che arrivano in casa Vagni una lavagnetta appesa nell’angolo del salotto. Ogni mattina Khwuan, la moglie dell’operatore della Croce rossa internazionale di 62 anni rapito il 15 gennaio, aggiorna l’amaro conteggio. Accanto al numero, una frase in inglese: «Eugenio in Philippines». Lui si trova nell’isola di Jolo, prigioniero dei ribelli islamici di Abu Sayyaf. Lei si è rifugiata a Montevarchi, la cittadina in provincia di Arezzo dove il tecnico è nato e dove vivono i due fratelli e le due sorelle. Khwuan – 36 anni, d’origine thailandese – esce poco dall’appartamento a due passi dalla stazione ferroviaria. «E se mi cercassero per dirmi che Eugenio è stato liberato e non mi trovassero a casa? No, no. Aspetto qui». Intanto il telefono squilla. «Ogni giorno mi chiama il Comitato internazionale della Croce Rossa da Ginevra – racconta –. Ripetono che devo farmi coraggio e che quest’incubo finirà presto. Ma è dura. Sedici settimane senza mio marito, senza avere certezze. Oggi la liberazione sembra dietro l’angolo, domani la situazione precipita. È un’altalena continua di notizie». La sua prima fonte è il Web. «Sono sempre attaccata ad Internet e cerco con Google tutti gli articoli su Eugenio. In uno si legge una cosa, in un altro l’esatto opposto. Che cosa devo pensare?». Nella nebbia che avvolge il sequestro, un punto di riferimento è la Farnesina che, spiega la moglie di Vagni, «parla sempre con Francesco», uno dei fratelli del cooperante. Poi ci sono le telefonate con Eugenio. L’ultima è di venerdì. «Mi ha detto che è stanco per gli spostamenti nella foresta e che sta piovendo a dirotto. Chiedeva a che punto fossero i negoziati, anche se lui è perfettamente al corrente della situazione». La conversazione è durata meno di due minuti. «Se mi sento più tranquilla dopo la telefonata? So che è vivo, ma nella testa rimbalzano sempre le stesse domande: perché non lo hanno ancora liberato? Che cosa vogliono i terroristi da lui?». Davanti al tè che versa per gli amici, Khwuan si affida più volte all’espressione «Don’t forget», mentre si sfoga in inglese e con i pochi vocaboli italiani che ha imparato da quando si è chiusa nella casa di Montevarchi. «Eugenio non va dimenticato. L’Italia non può cancellarlo dalle pagine dei giornali. L’unità di crisi del ministero degli Esteri è la nostra speranza insieme alla Croce Rossa». E il pensiero va a chi si è mobilitato per il marito. «Sono commossa dagli interventi che si sono susseguiti in questi mesi. Mi hanno toccata le parole del Papa che il 30 marzo aveva fatto sentire la sua voce per salvare Eugenio. E questo costante sostegno è una sorgente di forza per noi». Suona spesso il campanello in casa Vagni durante un pomeriggio come tanti. Rientra Narisorn, 15 anni, primogenito di Khwuan, dopo una lezione di pianoforte. Letizia va a fare due passi insieme a un amico di famiglia. Una conoscente arriva con la borsa della spesa. Sono momenti di un presente che vorrebbe apparire normale, ma che normale non è. «Quando ci siamo sposati – confessa la donna – sognavamo una vita felice: la casa, il lavoro, i figli. Non un supplizio come questo». «È angosciante che un uomo di pace come Eugenio sia diventato un bersaglio dell’odio e della violenza», spiega monsignor Pasquale Corsi, uno dei due sacerdoti che guida la parrocchia di Santa Maria del Giglio, dove Eugenio e Khwuan hanno celebrato il loro matrimonio. La sua visita è un appuntamento fisso nel calendario quotidiano dei Vagni. «Pasquale», lo chiama la piccola Letizia. Con lui anche il vicesindaco, Giovanni Rossi, insegnante di religione prestato alla politica. «Sentire la gente che ti dice “speriamo che Eugenio sia liberato presto” è indice di una partecipazione collettiva alla nostra sofferenza – afferma la donna –. Hanno già promesso che ci sarà una festa in piazza quando mio marito tornerà a casa». E se fosse domani? «Vorrebbe dire che le mie preghiere sono state esaudite».
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