domenica 20 aprile 2025
A Masafer Yatta, sulle colline a sud di Hebron, 4mila palestinesi hanno scelto la nonviolenza contro l’avanzata israeliana. La storia ha ispirato “No other land”, premiato a Hollywood
Il "sumud", la resistenza non violenta dei palestinesi di Masafer Yatta si tramanda di generazioni in generazione

Il "sumud", la resistenza non violenta dei palestinesi di Masafer Yatta si tramanda di generazioni in generazione - .

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L’asfalto della road 317 lacera le rocce dorate delle colline di Masafer Yatta. Ambra, beige, sabbia: dopo Hebron, il deserto della Giudea si dilata in infinite tonalità fino a sfumare nel bianco gessoso delle pietre antiche con cui è costruita la manciata di case di al-Tuwani. L’oasi, in arabo. Uno dei trenta villaggi dell’altopiano all’estremo sud-est della Cisgiordania dove 4mila agricoltori e pastori palestinesi vivono sotto amministrazione militare di Tel Aviv dopo l’occupazione del 1967.

A metà mattina molte persiane sono ancora abbassate e le sedie sulle verande vuote. Ma nessuno dorme dietro le porte chiuse. È stata un’altra notte insonne per la comunità. Giovedì sera i coloni hanno sparato contro un residente. Non accadeva dall’inizio della guerra a Gaza. La violenza quotidiana corre verso un nuovo picco. A esserne travolto stavolta è stato Said, sheikh cioè predicatore 57enne, ferito gravemente a una gamba. Non si sa se potrà ancora camminare. E, per paradosso, dopo il ricovero all’ospedale di Ber Sheva, rischia di finire in cella al posto del suo aggressore. «Con quale accusa? Quella che decidono loro». Ovvero l’esercito e i coloni, «che da queste parti ormai sono la stessa cosa ed entrambi sono determinati a sgomberarci».

Nelle occhiaie scavate sul viso determinato di Sami Hureini, del padre Hafez e del resto dei trecento abitanti di al-Tuwani si rivela appieno il significato di “sumud”, resilienza sulla terra. La forma di resistenza nonviolenza fatta di parole, denunce e soprattutto corpi disarmati ancorati al suolo e frapposti ai bulldozer, che il popolo di Masafer Yatta pratica dal 1999. Un quarto di secolo ripercorso magistralmente in No Other Land, documentario appena premiato con l’Oscar.

Uno dei quattro autori – gli altri sono gli israeliani Yuval Abraham e Rachel Szor e il palestinese Hamdan Ballal –, Basel Adra, è cresciuto in questo villaggio. E qui è tornato dopo le settimane trascorse a Los Angeles. La sua casa è all’imbocco della salita appena oltre il “quartier generale” di Operazione Colomba, il corpo di pace dell’associazione Giovanni XXIII che accompagna l’esperienza dal 2004. Dalla scorsa estate si sono uniti gli attivisti di “Mediterranea with Palestine”, progetto dell’Ong Mediterranea.

«La loro presenza è importante. Sono stati i miei “scudi umani” quando da bambino portavo il gregge al pascolo. Gli devo e gli dobbiamo tutti tanto», dice il regista 29enne mentre offre caffè fumante sul portico. È sempre disponibile per i visitatori, come prima della notorietà. Almeno quando la figlia neonata, che riposa all’interno, e la testata indipendente 972 – in cui lavorano fianco a fianco israeliani e palestinesi – gli danno una pausa. Ora vorrebbe anche aprire un centro per insegnare giornalismo ai bambini della zona.

«Andarmene? No, sento il dovere di restare. E di continuare a fare quello che ho sempre fatto: documentare gli abusi continui per cancellarci da questa terra. A volte è difficile trovare motivazione o speranza, ma arrendersi non è un’opzione», racconta con la stessa ostinazione di quando, adolescente, girava per l’altopiano con la telecamera in mano per registrare sgomberi, demolizioni, abusi di coloni e autorità.

«Rifiutavo di pensare che fosse normale. E volevo che tutti sapessero. Filmavo e pubblicavo sui miei profili social. Poi Yuval si è interessato alla situazione e ci siamo incontrati. Così, cinque anni fa, con lui, Rachel e Hamdan, è nato il progetto di No Other Land. Nessuno di noi avrebbe mai immaginato di arrivare a Hollywood, è stato uno choc. Non ci ho creduto fino a quando non mi sono trovato sul “red carpet”. Purtroppo il successo internazionale non ha cambiato la realtà in Palestina. A Masafer Yatta le cose vanno sempre peggio». «Se prima del 7 ottobre c’era anche un mese senza un sopruso, ora riceviamo almeno una segnalazione al giorno», spiega Ghespe, nome fittizio utilizzato, per questioni di sicurezza, da uno dei volontari di Operazione Colomba.

I primi tre insediamenti israeliani, illegali in base al diritto internazionale, sono spuntati a sud di Hebron negli anni Ottanta: a costruirli estremisti legati all’ultradestra religiosa. A questi, negli anni Duemila si sono aggiunti tre avamposti: fattorie che, con poche famiglie, riescono a controllare grandi porzioni di territorio. Nel frattempo, le autorità israeliane hanno dichiarato “zona militare” il terreno di dodici comunità di Masafer Yatta.

Tra ottobre e novembre 1999, 700 residenti sono stati sgomberati, decine e decine di abitazioni, serbatoi d’acqua e infrastrutture sistematicamente distrutti. «Abbiamo iniziato a chiederci: cosa possiamo fare? Come difenderci nel modo più efficace? Ci siamo riuniti fra i vari villaggi, abbiamo discusso, riflettuto e alla fine abbiamo deciso che l’avremmo fatto senz’armi. Non volevamo dare al governo di Tel Aviv il pretesto per cacciarci definitivamente», narra Hafez Huraini, 52 anni, fondatore del Comitato di resistenza nonviolenta. In questa scelta è stata fondamentale la madre Fatima, profuga della Nakba, l’esodo forzato palestinese dal futuro Stato di Israele dopo la partizione e la guerra del 1948.

Il premio Oscar Basel Adra

Il premio Oscar Basel Adra - .

«Una volta, sette coloni l’hanno aggredita e ridotta in fin di vita. All’epoca, era il 1998, ero giovane e impulsivo. Ero deciso a fargliela pagare. Mentre rimuginavo sulla vendetta, lei ha intuito i miei pensieri, mi si è avvicinata e mi ha detto: “So cosa vuoi fare. Ma è sbagliato. Così li aiuterai a mandarci via. La violenza è facile ma non funziona. Sii creativo”». Fatima, forse, non conosceva la storia del piccolo Davide e del gigante-guerriero Golia.

Il Comitato di resistenza nonviolenta somiglia, però, molto alla fionda con cui Hafez e gli abitanti di Masafer Yatta hanno inceppato la macchina dell’Occupazione. «Abbiamo avviato azioni legali, organizzato manifestazioni, chiamato i media. E in tre mesi abbiamo ottenuto dalla Corte Suprema lo stop temporaneo all’evacuazione e il ritorno dei cacciati», sottolinea Hafez con una punta di orgoglio. Nei ventidue anni successivi, pur fra le tensioni, i palestinesi delle colline di Hebron hanno continuato a vivere e a coltivare le proprie terre. A rompere il pseudo-equilibrio, il nuovo verdetto del massimo tribunale che, nel 2022, ha confermato l’espulsione.

«Il Covid è stato lo spartiacque – sostiene Ghespe –: la destra israeliana, tornata al potere, ha approfittato dell’assenza degli osservatori internazionali e della distrazione del mondo per intensificare la conquista della Cisgiordania. Dopo il 7 ottobre la pressione s’è fatta insostenibile. Il governo ha armato i coloni e molti sono stati reclutati nell’esercito per controllare i Territori».

Nel giro di cinque anni sono comparsi altri dieci avamposti, ancora più aggressivi. Il recente Oscar a No Other Land ha generato un’ulteriore ondata di rabbia, come dimostra, il 24 marzo, il pestaggio e l’arresto di Hamdan Ballal a Susiya. La Statuetta ha fatto sì che si rompesse la coltre di silenzio in cui le violenze si susseguono ininterrotte.

«È dura. Quante volte mi hanno messo in prigione? Uh… – sospira Hafez –. Non lo so più: 25, 26. Ci stavo per una settimana, un mese o sei mesi, dipende. Ma non ho cambiato idea: “sumud”. La resistenza nonviolenta richiede pazienza». «Come ogni palestinese vorrei vedere la fine dell’Occupazione. Ci riuscirò? Forse. Intanto continuo, “sumud”», gli fa eco il figlio Sami. «Il mio sogno – conclude Basel Adra – è quello di guidare fino a Hebron senza dovermi fermare per ore al check-point, con la paura di un agguato dei coloni. A volte, sarebbe sufficiente questo».

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