Il più forte non ha ogni diritto: la lezione sempre attuale di Grozio
Quattro secoli fa a Parigi veniva stampato “De jure pacis et belli”, il capolavoro del padre del giusnaturalismo e del diritto internazionale

Prima che si concluda quest’anno, segnato da orrori ancora senza fine, mentre l’unica regola per risolvere le controversie sembra la follia delle armi, c’è un anniversario da ricordare. In questo caso per aprire gli occhi su un’evoluzione mancata, che nemmeno dopo quattro secoli ha consentito i progressi attesi. Nel 1625, infatti, l’olandese Hugo de Groot, Ugo Grozio, già autore del libro La libertà dei mari (uscito nel 1609 a sostegno della libera navigazione), pubblicò Il diritto della guerra e della pace – il capolavoro che l’ha consacrato padre del giusnaturalismo moderno e del diritto internazionale. Dopo il confronto con la nuova configurazione dello spazio seguita alle scoperte geografiche delle potenze europee offerto con le pagine di Mare Liberum, Grozio, nel De jure pacis et belli (titoli nell’originale latino) – richiamando i validi risultati raggiunti nella storia ab antiquo e attingendo al sapere greco, romano, ebraico, cristiano... – indicava soprattutto una necessità. Quella di creare un sistema giuridico che regolasse le relazioni tra gli Stati, al fine di scongiurare le guerre. Ritenendo inoltre che in ogni nazione civilizzata il diritto naturale - cioè conforme alla natura dell’uomo, intrinsecamente giusto a prescindere da una visione teocentrica - potesse limitare le forme più gravi di arbitrio o discriminazione. In questo quadro, il pensatore olandese che affermava “Ci sarebbe diritto anche se ammettessimo – cosa che non si può fare senza gravissima empietà – che Dio non esistesse... ”, ricostruiva con un gran numero di esempi i lineamenti fondamentali del diritto naturale e del diritto delle genti, ritenuti utili bussole in tempo di pace e di guerra.
Diviso in tre libri, De jure pacis et belli affronta parecchi argomenti. Nel primo afferma l’esistenza di un ordine di giustizia universale alla base dello stesso diritto opera degli uomini e in continuità con esso, distinguendo poi fra diritto naturale e diritto delle genti. Nel secondo analizza le possibili giuste cause della guerra (come la difesa da un attacco o il recupero di un diritto violato), condannando guerre di conquista e preventive non fondate su minacce reali. Nel terzo, riferendosi sempre al diritto naturale e a quello pattizio, affronta il tema dei comportamenti leciti e illeciti nei conflitti bellici. Richiamando, in quest’ultima parte, il dovere di evitare il male degli innocenti, donne e bambini, ma pure -curiosamente- categorie di persone da ritenersi innocenti per presunzione di diritto in relazione al loro status: chierici, monaci, religiosi, letterati, contadini, mercanti e artigiani. Poi argomentando sul dovere di rispettare limiti evidenti anche in casi di guerra giusta, evitandosi in ogni reazione crudeltà sproporzionate o gratuite. Insomma, indicazioni che anticipano di secoli princìpi del diritto internazionale umanitario di oggi, presenti nelle Convenzioni di Ginevra ratificate da tutti gli Stati del mondo, come pure nella Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia istituita dalla Carta delle Nazioni Unite. Princìpi purtroppo spesso ancora disattesi.
Stampato a Parigi – dove Grozio era fuggito evadendo dal carcere dopo la condanna all’ ergastolo inflittagli nel 1618 dal Sinodo di Dordrecht per il suo sostegno all’arminianesimo – De jure pacis et belli, pur segnato da non pochi passaggi contraddittori e ambivalenti, nonché da una scrittura pesante fitta di rimandi e riprese da altre fonti (sostanziale quella dal De iure belli di Alberico Gentili apparso nel 1598), mantiene comunque un suo fascino. Colpiscono infatti le riflessioni per conferire allo Stato moderno un fondamento razionale, resosi inutilizzabile quello teologico ancorato alla Rivelazione, a causa delle guerre civili di religione, preludio di una laicizzazione che spezza la continuità fra lex divina, lex naturalis e lex positiva della tradizione aristotelico-tomista. Ma stupisce specialmente l’insistenza su una tesi così riassumibile: anche durante la guerra “i più forti non hanno ogni diritto”.
È quanto emerge da un’opera la cui complessità da noi ha rimandato a lungo la traduzione integrale, uscita solo tre anni fa a cura di Carlo Galli e Antonio Del Vecchio, con la collaborazione di altri studiosi, edita dall’Istituto Italiano Studi Filosofici. E a ben vedere, in questi tre tomi, il profilo dell’autore di Delft si staglia non solo come giurista e filosofo, ma pure come teologo, considerando nella sua riflessione anche quella “modica theologia” che trova il suo baricentro nell’omologia tra diritto naturale e religione naturale. Proprio laddove Grozio – autore pure del De Veritate religionis Cristianae pubblicato in volgare nel 1622 e in latino nel 1627- prova a integrare ragione e fede presentando una teologia aperta al dialogo e alla tolleranza, al riconoscimento e rispetto della pluralità delle credenze. Tutte tematiche che, in un tempo di transizione, in cui in Europa imperversavano conflitti politici e religiosi, stavano al centro non solo del pensiero groziano, ma della sua stessa esperienza. Infatti, nominato ambasciatore di Svezia in Francia nel 1634 dal Gran Cancelliere Axel Oxenstierna, essendo i due Paesi coinvolti nella Guerra dei Trent’anni, Grozio trascorse dieci anni a negoziare l’esito del conflitto sino a quando, richiamato a Stoccolma dalla regina Cristina, si dimise dall’incarico per ragioni di salute. Sfuggito ad un naufragio, l’olandese definito “la coscienza giuridica d’Europa” morì poco dopo nel 1645 in Germania, a Rostock.
Se si rilegge il De jure belli ac pacis alla luce del dibattito odierno su guerra e pace, si può anzitutto escludere che Grozio possa essere collocato su posizioni belliciste; allo stesso tempo, non è corretto attribuirgli un pacifismo ante litteram. Il suo intento, infatti, non fu mai quello di stigmatizzare la guerra, bensì di disciplinarla attraverso delle norme, Grozio affermò con vigore che il conflitto stesso - se inevitabile - doveva essere sempre soggetto a regole. Resta questa una delle formulazioni più importanti del suo magnum opus. Attuale e inattuata, dopo quattro secoli.
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