Nasrin, Maysa, Daniela e le sentinelle di speranza
Storie di donne e delle speranze che danno loro la forza di guardare negli occhi i figli e dire, un giorno dopo l’altro: questa tenebra in cui siamo caduti passerà

Nasrin spera che la sua attività di produzione di marmellata non attiri di nuovo le invidie dei suoi vicini di casa. Spera che non avvisino ancora i taleban per denunciarla, lei, una donna che lavora. Spera di non finire in carcere per la seconda volta a Daikundi, Afghanistan. Spera. E intanto continua a miscelare zucchero e frutta.
Maysa spera che tutti i bambini del quartiere di Deir El-Balah, nel centro della Striscia di Gaza, superino l’inverno. Spera che i suoi laboratori di arte-terapia siano per gli allievi un ricordo bello in mezzo a quelli orribili della guerra. Spera che i suoi tre figli piccoli possano tornare presto a scuola. Spera. E intanto dipinge un altro uccello con le piume azzurre che si libra in volo.
Robi spera che di poter ritornare presto a parlare nelle scuole di Israele con le sue amiche palestinesi del Parents Circle. Spera che la tempesta iniziata il 7 ottobre 2023 cessi e gli incontri con altri genitori che hanno perso un figlio, da una parte e dall’altra, siano di nuovo autorizzati. Spera che di pacificazione degli animi, di superamento dell’odio e del lutto si possa ricominciare a parlare liberamente. Spera. E intanto prepara il campo estivo per ragazzini palestinesi e israeliani.
Awatif spera di poter tornare un giorno a El Fasher. Spera di riconoscere la fossa dove sono stati sepolti due dei suoi sei figli, quelli che la carestia e l’assedio dei paramilitari delle Rsf sudanesi hanno stroncato. Spera che i quattro che le restano possano disintossicarsi dalla violenza che hanno vissuto. Spera. E intanto tende la mano per ricevere la sua razione di cibo nel campo profughi di Tawila.
Daniela spera che lassù Sofia sia felice, e avverta quanto è amata, anche adesso che non è più di questa terra. Spera che i 20 anni brutalmente interrotti di sua figlia ricordino ad altri ragazzi che amore non è possesso. Spera anche per sé, che il dolore l’accompagni sempre ma faccia meno male. Spera. E intanto prepara il pranzo per quel che resta della famiglia.
Maysa spera che tutti i bambini del quartiere di Deir El-Balah, nel centro della Striscia di Gaza, superino l’inverno. Spera che i suoi laboratori di arte-terapia siano per gli allievi un ricordo bello in mezzo a quelli orribili della guerra. Spera che i suoi tre figli piccoli possano tornare presto a scuola. Spera. E intanto dipinge un altro uccello con le piume azzurre che si libra in volo.
Robi spera che di poter ritornare presto a parlare nelle scuole di Israele con le sue amiche palestinesi del Parents Circle. Spera che la tempesta iniziata il 7 ottobre 2023 cessi e gli incontri con altri genitori che hanno perso un figlio, da una parte e dall’altra, siano di nuovo autorizzati. Spera che di pacificazione degli animi, di superamento dell’odio e del lutto si possa ricominciare a parlare liberamente. Spera. E intanto prepara il campo estivo per ragazzini palestinesi e israeliani.
Awatif spera di poter tornare un giorno a El Fasher. Spera di riconoscere la fossa dove sono stati sepolti due dei suoi sei figli, quelli che la carestia e l’assedio dei paramilitari delle Rsf sudanesi hanno stroncato. Spera che i quattro che le restano possano disintossicarsi dalla violenza che hanno vissuto. Spera. E intanto tende la mano per ricevere la sua razione di cibo nel campo profughi di Tawila.
Daniela spera che lassù Sofia sia felice, e avverta quanto è amata, anche adesso che non è più di questa terra. Spera che i 20 anni brutalmente interrotti di sua figlia ricordino ad altri ragazzi che amore non è possesso. Spera anche per sé, che il dolore l’accompagni sempre ma faccia meno male. Spera. E intanto prepara il pranzo per quel che resta della famiglia.
Cos’è la speranza per le donne in Afghanistan, in Palestina, in Israele, in Sudan, in Italia, ovunque si soffre, e in tutti i Paesi in cui si combattono guerre anche sulla loro pelle, guerre che nessuna di loro ha voluto e sulla cui cessazione non hanno la minima influenza benché ne sopportino il prezzo massimo? Cos’è la speranza per Nasrin, Maysa, Robi, Awatif, Daniela e tutte le altre? La speranza è un niente impalpabile. Ma è anche tutto. E’ ciò che le tiene in piedi, che dà loro la forza di guardare negli occhi i figli e dire, un giorno dopo l’altro: questa tenebra in cui siamo caduti passerà. Nessuna notte è infinita. Il coraggio se lo danno da sé, le donne, anche nei momenti in cui vorrebbero solo disperarsi, perché sanno che non c’è alternativa alla vita. Le donne nei Paesi in guerra, quelle che non siederanno mai ai tavoli delle trattative – lì, solo uomini, in divisa o doppiopetto, capaci di ragionare allo sfinimento di confini, di centimetri quadrati di terra, di eserciti e armi, ma non altrettanto di guardare in faccia il dolore dei popoli – non hanno alternative al vivere. È loro, il compito di resistere e di salvare l’umano. Se la guerra distrugge case e legami, le donne tengono acceso il futuro con la forza del quotidiano. «Il mondo ha bisogno di guardare alle madri e alle donne per trovare la pace, per uscire dalle spirali della violenza e dell’odio, e tornare ad avere sguardi umani e cuori che vedono», disse papa Francesco nella prima omelia del 2024. Le stesse parole che ha pronunciato papa Leone nel suo primo viaggio apostolico, a fine novembre in Libano, quando ha sottolineato che «le donne hanno una specifica capacità di operare la pace, perché sanno custodire e sviluppare legami profondi con la vita e con le persone».
Tenere viva la speranza nel mezzo della tenebra, e costruire la pace fuori e dentro di sé sono due facce della stessa medaglia. La sofferenza esiste, il dolore esiste, ma la scelta consapevole di Nasrin, di Robi, di Daniela e delle altre è di tenere aperta la porta della speranza. Nutrendola di gesti concreti, quotidiani, ma che spalancano prospettive: continuare produrre la marmellata in barba ai taleban, nutrire i figli fino all’ultima briciola possibile, insegnare a disegnare quando fuori piovono le bombe, amare quando hanno assassinato il tuo amore… Resistere, un giorno dopo l’altro, è continuare a sperare. In fondo, come ha scritto la giovane irachena yazida Nadia Murad, schiava sessuale dell’Isis e poi Premio Nobel per la pace, la speranza delle donne è «non accettare che l’ingiustizia sia il nostro destino».
© RIPRODUZIONE RISERVATA





