lunedì 10 giugno 2013
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«Cannoni ad acqua… Mi fanno ridere. Gli studentelli hanno paura di qualche spruzzo? Gli dà fastidio il gas lacrimogeno? Le botte della polizia? E cosa dovremmo dire noi che quasi tutte le settimane finiamo per prenderle? Noi e “loro”, quegli altri. Ma adesso non ci sono colori e squadre. Adesso c’è da menare le mani. E in questo siamo i migliori, parola di Uzu». Le braccia ricamate di tatuaggi, Uzu mi fissa con i suoi occhi azzurri come l’acqua tiepida del Bosforo a due passi da noi. «Hai visto le nostre insegne rosse e oro a Gezi Park e vuoi sapere perché, vero?» Sì. Insieme a studenti, giovani, militanti di partito nella protesta contro Erdogan sono comparse altre tribù metropolitane, una della quali è quella degli ultras. E non solo del Galatasaray, ma anche del Fenerbahce e del Besiktas. Gente che da sempre si affronta per strada. E che ci fanno a Gezi Park? «La polizia – dice Uzu – non può assalire in quel modo dei ragazzi che protestano per degli alberi segati. È troppo, non è accettabile. Allora siamo intervenuti noi». Le vetrine spaccate, le barricate, gli autobus incendiati: è opera vostra? «No. Quello l’hanno fatto gli anarchici, o magari qualcuno del Besiktas. Ma sicuramente gli abbiamo dato una mano». Contro Erdogan? «Contro la polizia che obbedisce a Erdogan e al suo governo pieno di divieti. Noi del Galatasaray siamo tradizionalmente di sinistra, il Besiktas pure, gli altri non credo. Eppure siamo qui insieme. Niente rivalità stavolta, solo solidarietà con chi è sceso in piazza. Non per niente le nostre sigle, UltraAslan, Carsi e Vamos Bien, non esistono sono più. Ora ci chiamiamo Istanbul United, ha capito?, Ah, ah!».Uzu forse non lo sa, ma anche in Egitto, in Piazza Tahrir era accaduta una cosa simile: Alawi e White Knights, tifoserie delle due squadre cairote, Al-Ahly ed Al-Zamalek, cariche di adrenalina e di odio reciproco si unirono per far cadere Mubarak. E oggi intonano cori contro Recep Tayyip Erdogan.Alla ricerca delle tribù metropolitane che la rivolta di Gezi Park ha fatto emergere in un condiviso dissenso non possiamo trascurare gli aleviti. Una silenziosa ma compatta minoranza – almeno dodici milioni – nel corpaccione addormentato dell’Anatolia, che tuttavia ha fatto sentire la sua voce anche a Istanbul e Ankara. A Gezi Park c’è una tenda di aleviti, una setta sciita riconosciuta ed esaltata dall’ayatollah Khomeini, presente sostanzialmente solo in Turchia. «Con una caratteristica – dice Jibitz, cinquantasettenne insegnante di letteratura in un liceo di Istanbul –: il laicismo kemalista. Siamo sciiti duodecimani, ma non bigotti. Atatürk rimane il modello di modernità cui ci ispiriamo, ma quello di Erdogan non ci piace, perché combina affarismo, paternalismo e divieti improponibili in una società che si evolve rapidamente come la nostra». Ci sono buoni musulmani anticapitalisti qui a Gezi Park… «Li ho visti. Noi non siamo contro il capitale, la ricchezza, il benessere. A patto che non diventi l’anima del Paese. Allora davvero non c’è più religione».Il benessere. La crescita tumultuosa della Turchia – tassi dell’8,5 per cento all’anno, come la Cina, precipitati ora al 2,5 per cento, che pure per l’Europa è un traguardo impensabile – ha triplicato il reddito pro capite e diffuso un benessere e una propensione ai consumi attirando nel contempo capitale e investimenti esteri. Ma nel mosaico della protesta non avremmo pensato di trovare anche i colletti bianchi e i dirigenti. E invece ci sono, come ci testimonia Fausto Pelanti, giovane manager ventottenne residente a Istanbul che lavora per una multinazionale, parla turco ed è sceso in piazza a fianco di Occupygezi. «Io non sono mai sceso in piazza in Italia, mai, per nessun G8 o cose del genere. Qui a Istanbul invece l’ho fatto. E l’hanno fatto in molti. Manager ben vestiti, ben pagati, gente che credevo che avrebbe seguito la protesta dal salotto di casa. Invece sono andati in strada a manifestare, convinti, come Ceyda Sungar, la famigerata ragazza in rosso, che insegna urbanistica all’università». Convinti di cosa? «Che uno Stato paternalistico alla fine non paga. Istanbul è un laboratorio per la Turchia. Qui le cose accadono prima, poi lentamente si riverberano per tutto il Paese». Erdogan ha il 50 per cento dei consensi elettorali: un record inarrivabile in una democrazia… «Il successo economico del Paese è certamente merito suo. La violenza della polizia però è un’altra cosa. Tra l’altro noto un fatto quasi ironico: la protesta di Gezi Park è nata perché Erdogan voleva far costruire un grande centro commerciale. Oggi il parco occupato ha un cinema, una biblioteca, degli stand dove si vende cibo, souvenir, maschere antigas, c’è musica tutto il giorno, spettacoli, danze, eventi. Non sembra di fatto un centro commerciale?». Ma c’è un’altra grande tribù che è rimasta stranamente in silenzio. La minoranza curda. Alle marce, alle battaglie in strada, alle occupazioni è rimasta indifferente. Ma un motivo c’è ed è il co-leader del Bdp (Partito della Pace e della Democrazia filo-curdo) Selahattin Demirta a chiarirlo: «Quando la polizia caricava e incarcerava gli attivisti curdi non c’è mai stata alcuna manifestazione di solidarietà, che io sappia. Peraltro non è ricorrendo alla piazza che i curdi possono avere più libertà e democrazia, ma è inserendo nella Costituzione i loro diritti che qualcosa di significativo potrà accadere. Solo allora la pacificazione sarà completa». Che tradotto dal prudente politichese significa: in questa mini-rivoluzione noi non ci crediamo e dunque non spendiamo una parola per sostenerla.Riprendo la strada ancora irta di barricate che porta dalla torre di Galata a Piazza Taksim e senza volerlo ritrovo Uzu, seduto a un bar che beve birra con quattro amici. «Giornalista – dice – mi sono dimenticato di domandarti a che squadra tieni». All’Inter, azzardo. E qui Uzu fa una smorfia di trattenuta dignità, come certi visir che occhieggiano carichi di sussiego dalle miniature in fondo oro di cui abbonda l’arte calligrafica ottomana: «L’avessi saputo prima quell’intervista non l’avremmo mai fatta».
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