martedì 21 giugno 2022
Sulla città 14 missili: nel mirino infrastrutture, condomini, un centro sportivo, stabilimenti produttivi. I russi vogliono costringere i residenti ad andarsene e lasciare campo libero alla battaglia
Gli esiti degli attacchi russi su obiettivi civili nel distretto di Mykolaiv e nell’area di Schevchen-kove, dove si trova il fronte sud degli scontri tra le forze di Mosca  e Kiev, a ridosso di Kherson

Gli esiti degli attacchi russi su obiettivi civili nel distretto di Mykolaiv e nell’area di Schevchen-kove, dove si trova il fronte sud degli scontri tra le forze di Mosca e Kiev, a ridosso di Kherson - Le foto di questo articolo sono di Nello Scavo

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Quattordici missili in dieci ore per archiviare la diplomazia del grano. Mentre il Cremlino prendeva tempo offrendo spiragli, le navi rimaste a corto di munizioni venivano riarmate. Sulla regione di Odessa è stato un ritorno alle bombe vere, non solo minacciate. Ordigni scaricati dopo avere mostrato con la rappresaglia su Mykolaiv che l’unica alternativa alla sottomissione è la “prospettiva Grozny”.

È stato raso al suolo il complesso produttivo della città che da quattro mesi vede i russi avvicinarsi e poi ripiegare sulle posizioni di Cherson. Cinque missili nel pomeriggio di sabato sono stati scagliati sulle infrastrutture civili, dopo che il giorno prima altri due micidiali “Kalibr” avevano sventrato alcuni complessi condominiali e un centro sportivo tra i più avanzati dell’Ucraina.
Anatoly, uno degli imprenditori rimasti senza più neanche le mura dello stabilimento, ci accompagna tra le macerie che esalano fumo e puzzo di plastica che si squaglia. Era una fabbrica di infissi che dava lavoro a duecento operai. Nelle ultime settimane Anatoly aveva deciso insieme al figlio, con cui conduce l’azienda, di regalare alla popolazione porte e finestre con cui sostituire le opere distrutte dagli scoppi. «Avevamo fermato la produzione – racconta con le lacrime agli occhi l’uomo che da fabbro si era fatto capo azienda – il giorno dopo il primo attacco».

Non era l’unico viavai che deve avere infastidito gli spioni russi. Accanto c’era un altro stabilimento. Veniva immagazzinata la minerale distribuita gratuitamente alla popolazione. Da Mikolayv a Schevechenkove, lungo tutta la linea del fronte, non c’è acqua potabile da mesi. E quella che scorre dai rubinetti spesso non è buona neanche per lavarsi. Poco più avanti, dopo lo scheletro di un camion ridotto a ferraglia accartocciata, c’è la celebre azienda di salumi e salsicce trasformata in cucina industriale dove i volontari di “World Central Kitchen”, l’organizzazione non governativa fondata dallo chef spagnolo José Andres, preparavano i pasti poi distribuiti agli sfollati in vari punti di raccolta. Solo il furgone per la consegna dei salumi ai supermercati si è salvato dall’esplosione e dai crolli. Niente acqua, niente cibo e niente finestre. Lo scopo sembra chiaro: costringere i residenti ad andarsene e lasciare campo libero alla battaglia per la conquista. Del mezzo milione di abitanti più della metà sono andati via. Non non abbastanza per i piani di Mosca.

I frammenti dei razzi russi si riconoscono ad occhio nudo. La costosa lega metallica che all’impatto al suolo si libera in mille schegge argentate si presenta come lamiera contorta e ancora incandescente. La devastazione ricorda da vicino i quartieri siriani e quelli ceceni azzerati dall’artiglieria russa. Tuttavia, non ci sono stati morti né feriti. «Questo vuol dire – arguisce un operaio intento con decine di altri ad abbattere le pareti pericolanti – che sapevano che proprio sabato pomeriggio tutta l’area sarebbe stata chiusa e le attività si sarebbero fermate per un pomeriggio». Quello degli informatori sul terreno è uno degli spettri che si aggira nel conflitto dove tutti parlano la stessa lingua, portano al collo la stessa croce e hanno la stessa faccia. «Dio sa chi è il colpevole», scandisce un uomo che ci implora di non andare via. È un vecchio che ad andarsene non ci pensa. Troppo tardi anche solo per immaginarsi una vita lontano dal suo bilocale a cui ora manca il tetto. «Tutti devono vedere quello che ci stanno facendo – dice assicurandosi di essere ben tradotto dal russo –, ma se voi non resterete qui, loro si sentiranno liberi di sterminarci. Lo hanno già fatto coi nostri padri. Questa gente è gelosa della nostra libertà, ma hanno paura dei giornalisti. State attenti».

Quando i missili sono piovuti su Mikolayv rientravamo dalla linea del fronte sud, tra Schevchenkovae e Posade. Le forze di Kiev sono tornate a spingere verso sud per riavvicinarsi a Cherson e mettere chilometri di campagna tra gli avamposti russi e l’ultima grande città prima di Odessa. Scendere in una trincea, attorniata di residuati russi distrutti e dalla boscaglia dietro cui possono nascondersi i cecchini, è un’esperienza istruttiva: insegna che sotto al fuoco che arriva dalla parte opposta si combatte soprattutto per non morire, e proteggere i compagni di battaglia. Di politica e di inni nazionali si parla solo nei momenti di pausa, di solito all’ora di pranzo quando da una parte e dall’altra sembrano siano d’accordo nel fermare i tiratori. L’infermiere di campo, ad esempio, simpatizza per l’opposizione a Zelensky. Il guidatore dell’ambulanza militare, un tipo calmo e taciturno e taciturno da fermo, ma sprezzante e loquace al volante, invece è un fedelissimo del presidente. «Ma di queste cose parleremo a guerra finita», taglia corto il capitano medico.

Ieri notte le forze armate ucraine hanno colpito gli impianti di perforazione off-shore note come Boyko Towers, conquistate dalla Russia nel 2014 durante l’annessione della Crimea. La conferma è arrivata da Sergey Aksonov, uomo di fiducia di Putin a Sebastopoli. Secondo Aksonov vi sarebbero stati cinque feriti e diversi dispersi, ma non è stato precisato se si tratta di civili o militari di guardia. Le piattaforme distano circa 100 chilometri da Odessa e 150 dalla Crimea. Venivano utilizzate per la produzione di gas e per l’esplorazione.

Lo Stato maggiore di Mosca ha reagito con la consueta brutalità, scegliendo accuratamente gli obiettivi secondo un metodo corroborato da quattro mesi di guerra: un bersaglio civile ogni due tiri su target militari. Anche ieri i razzi sono stati diretti verso un aerodromo militare di fronte all’Isola dei Serpenti, nei pressi di un magazzino strategico a Odessa e, ancora una volta, in un hangar odessino. Poche ore prima proprio l’Isola dei Serpenti, conquistata dalla Marina di Mosca nelle prime ore del conflitto, era stata ripetutamente colpita dal tiro ucraino. Come prevedibile la risposta non si è fatta attendere e la contraerea fornita dalla Nato ha fatto cilecca almeno in tre casi.

Durante gli allarmi e le esplosioni che hanno più volte fatto tremare anche il centro della “Perla del Mar Nero”, i residenti hanno reagito con il consueto fatalismo. Gennadiy Trukhanov, primo cittadino di Odessa, non nasconde la preoccupazione «per la crescita dell’odio per tutto ciò che è russo» e ha ribadito la sua contrarietà a cancellare i simboli dei legami storici con Mosca: «Odessa è la capitale interculturale dell’Ucraina». Parole che in città non tutti condividono, ma Trukhanov sa di doverle proferire anche perché tra pochi giorni l’Unesco esaminerà la candidatura di Odessa tra i beni patrimonio dell’Umanità.

L’orchestrina che suona nel parco di viale Alexandrowskiy non smette neanche quando gli scoppi sono più ravvicinati. La gente applaude come nulla fosse. «Vogliamo che Putin veda questo», dice un’elegante quarantenne mentre mostra alle amiche le unghie smaltate con i colori gialloblù dell’Ucraina. Racconta di avere trascorso la giornata a smistare indumenti nel vicino centro d’accoglienza per gli sfollati. «Lo scriva – insiste salutandoci con tono perentorio –: questo sarà il Vietnam di Putin».

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