venerdì 21 gennaio 2022
Pechino continua a «diluire» gli interventi del Consiglio di sicurezza dell’Onu a favore di un solido partner commerciale e strategico nella regione
Da settimane continuano le manifestazioni in Sudan contro i militari golpisti: le vittime tra i dimostranti sono già 72

Da settimane continuano le manifestazioni in Sudan contro i militari golpisti: le vittime tra i dimostranti sono già 72 - Reuters

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Forse non saranno più i tempi di Bashir e, soprattutto, quelli di un Sudan che dirottava verso Pechino 200mila barili di greggio al giorno in cambio di un appoggio importante contro le condanne all’Onu sui crimini di guerra nel Darfur. Erano gli anni di inizio millennio, anni in cui proprio in Sudan la Cina mostrava senza imbarazzo alcuno la sua politica di non ingerenza negli affari interni altrui, al prezzo di migliaia di vittime civili nell’Ovest. L’indipendenza del Sud Sudan da Khartum, nel 2011, ha significato per il Sudan lasciare sul terreno oltre i tre quarti della sua produzione di petrolio, e quindi anche quel rapporto privilegiato con Pechino, che nell’ultimo decennio ha trovato altri partner energetici in Asia Centrale e America Latina. Ciononostante i legami del passato restano solidi, soprattutto con le gerarchie militari che dal golpe in poi sono al potere a Khartum. Non è un caso che ancora nelle scorse settimane, con un Sudan sconquassato dalle rivolte di piazza dei civili contro la giunta golpista (nuove manifestazioni, nelle ultime 48 ore, hanno causato un’altra vittima, portando il totale a 72), proprio la Cina abbia «diluito» insieme alla Russia interventi del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, evitando termini come «condanna» e «colpo di stato». Non solo: le stesse armi utilizzate dall’esercito sudanese sono di provenienza cinese. L’esercito sudanese sarebbe l’unico a utilizzare i Type 96, carri armati da combattimento di fabbricazione cinese. Ancora nel 2018 Pechino era la sola a fornire armi alle forze di Bashir.

Benché sia oggi un partner economicamente meno importante, per la Cina il Sudan riveste però ancora un ruolo di un certo rilievo, soprattutto per la sua posizione strategica, nel cuore di una regione africana contesa da vecchi e nuovi attori. Non ci sono solo la Russia, che in Africa sta cercando di giocare una nuova partita, o gli Stati Uniti, che provano a non farsi lasciare indietro, ma anche sauditi, emiratini, turchi. Senza contare che sull’influenza in Sudan si gioca un pezzo della contesa sulla Diga del rinascimento etiope, la grande diga sul Nilo che vede soprattutto il contrasto tra Addis Abeba e Il Cairo, laddove il generale al-Sisi ha legami stretti con l’uomo forte oggi a Khartum, il generale al-Burhan.

Dal 2011 al 2018 la Cina ha garantito al Sudan prestiti per 143 milioni di dollari, una cifra che impallidisce rispetto ai circa 6 miliardi di dollari del periodo 2003-2010. Eppure Pechino è tuttora uno dei principali partner commerciali di Khartum e un investitore molto attivo in diversi settori, a partire da quello minerario. Migliaia sono i cinesi in Sudan, impegnati in progetti di infrastrutture e servizi, così come in quel che resta dell’industria petrolifera. Anche per proteggere i suoi investimenti, ed evitare ripercussioni in un territorio che lambisce la sua Belt and Road Initiative, la stabilità del Sudan è un obiettivo di primo piano per Pechino.

C’è chi sostiene, di fatto, che più che dai legami personali con la leadership militare, la Cina sia guidata da un approccio puramente pragmatico: tutto purché il Sudan resti allineato agli interessi cinesi. Nel 2019, dopo la caduta di Bashir, il portavoce del ministro degli Esteri di Pechino sottolineò: "Non importa come la situazione cambierà, la Cina resterà impegnata a mantenere e sviluppare relazioni amichevoli e di cooperazione con il Sudan". E quando, nel settembre scorso, il primo ministro cinese Wang Yi incontrò il premier sudanese Abdalla Hamdok - l’esponente civile del governo di transizione che, dopo essere stato arrestato a novembre e rimesso poi al potere dai militari, ha dato a inizio anno le sue dimissioni - ribadì che sempre la stabilità è per la Cina la "priorità principale". La stessa posizione ribadita, con il generale al-Burhan al potere, nelle ultime settimane di proteste di piazza. Proteste a cui Pechino difficilmente potrà mai strizzare l’occhio. Proprio in nome della sua riaffermata concezione di "stabilità".

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