mercoledì 2 febbraio 2011
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«Un mondo arabo senza l’Egitto è perfino inimmaginabile: gli arabi perderebbero una parte della loro anima, il loro elemento di riferimento e di guida». Fu questa la reazione di un alto diplomatico egiziano alla decisione della Lega Araba che, nel 1979, decise di isolare per un decennio il Paese per ritorsione alla firma degli accordi di pace con Israele a Camp David. Una frase che suona insopportabilmente arrogante agli occhi di molti degli arabi non egiziani, ma che contiene almeno un fondo di verità.Dall’Egitto infatti partì il tentativo di modernizzazione, agli inizi del XIX secolo: dal nuovo esercito di Muhammad ’Ali fino alla costruzione di quel canale di Suez che ancora oggi ha una sua grande centralità geoeconomica mondiale. Ed egiziano è stato Muhammad Abduh, l’antesignano del riformismo islamico, un coraggioso e sfortunato movimento che – fra Ottocento e Novecento – voleva cogliere ciò che di buono veniva offerto dall’Europa per svecchiare l’islam partendo da un radicale rinnovamento dell’istruzione. E ancora in queste terre nacque l’organizzazione di maggior successo del radicalismo islamico, l’Associazione dei Fratelli Musulmani di Hasan al-Banna. Dopo la guerra, fu ancora l’Egitto con il colpo di stato degli "ufficiali liberi" e il socialismo islamico di Nasser (Gamal Abd al-Naser) a offrire un modello di governo postcoloniale e di rivoluzione. Insomma, l’Egitto si è sempre proposto come antesignano e punto di riferimento per il più vasto mondo arabo; eppure i risultati effettivi da esso raggiunti appaiono molto più deludenti: un riflesso sbiadito e deludente rispetto alle sue grandi ambizioni.Dalla monarchia alla repubblicaUno dei primi Paesi colonizzati ad ottenere l’indipendenza dopo la Prima guerra mondiale, l’Egitto rimase tuttavia a lungo sotto il controllo informale della Gran Bretagna, a cui era strettamente legata la monarchia regnante. Dopo il 1945, questa situazione risultava sempre meno tollerata dalla popolazione e dai movimenti nazionalisti. Con il colpo di stato militare degli "ufficiali liberi" del 1952, si aprì l’era repubblicana e, sotto la guida di Nasser, il Paese si propose quale potenza regionale di riferimento. La speranza era che, con la vera indipendenza, arrivasse il progresso economico, la forza militare e il primato politico fra gli arabi e nel più vasto movimento dei Paesi non allineati.Il nuovo presidente era convinto che le forze armate avrebbero dovuto essere l’architrave della modernizzazione della nazione: forti da garantire l’indipendenza e la sconfitta dell’odiato stato d’Israele che aveva già battuto gli arabi nella prima guerra arabo-israeliana del 1948; fautori di una modernità che si coniugava alla tradizione: il socialismo arabo, appunto. Infine – e questo era il compito più importante – l’Egitto doveva coagulare attorno a sé gli altri Paesi arabi, per dar vita a un unico grande stato che contenesse la nazione araba e realizzasse gli ideali pan-arabisti. La storia è stata molto severa con queste speranze: nel 1956, dopo aver nazionalizzato il Canale di Suez, l’Egitto venne attaccato da Francia e Gran Bretagna – imbarcatesi "nell’ultima avventura coloniale", come è stato detto – e da Israele. La sconfitta militare fu totale e immediata: solo l’intervento dell’Onu e l’unanime volontà di Usa e Urss obbligarono gli attaccanti a ritirarsi. Sconfitto militarmente, Nasser uscì tuttavia politicamente vittorioso dal conflitto e tentò di realizzare l’ideale pan-arabo con la Repubblica Araba Unita: l’unione con la Siria del 1958 doveva essere il primo passo per unire tutti i popoli arabi. Invece, già nel 1961 l’esperimento si risolse in un fallimento.E fallì anche l’ambizione di distruggere lo stato sionista tramite una politica di massiccio riarmo sostenuta dall’Unione Sovietica. Nel 1967, dopo continue provocazioni, Israele attaccò Egitto, Siria e Giordania infliggendo loro un’umiliante e disastrosa sconfitta nella celebre Guerra dei sei giorni. Questo fallimento sminuì il prestigio interno e internazionale di Nasser che rispose al crescente dissenso con l’aumento della repressione, sia verso i movimenti giovani marxisti, sia contro i vertici dei Fratelli musulmani, sempre più attivi e popolari.La svolta di SadatDivenuto presidente nel 1970 alla morte di Nasser, Anwar Sadat sembrava la perfetta continuità con il passato. In realtà negli anni ’70 egli imporrà un cambiamento di rotta clamoroso, staccandosi dall’Unione Sovietica per divenire l’alleato cardine degli Stati Uniti. Prima però, occorreva "restituire l’onore agli arabi" vendicando l’umiliazione del 1967. E la guerra della Yom Kippur del 1973, pur non vinta dall’Egitto, ne risollevò il prestigio. Rafforzatosi, Sadat si preparò a incrinare la solidità del rifiuto arabo di Israele, avviando trattative con "l’entità sionista" (come veniva chiamato lo stato ebraico) che sfociarono negli accordi di pace di Camp David del 1979. L’Egitto riebbe il Sinai, perso nel 1967, e poté essere definitivamente riaperto il canale di Suez, i cui pedaggi sono fondamentali per l’economia del Paese. Il prezzo pagato fu però pesante: sospesa la sua partecipazione alla Lega Araba, il Cairo venne considerato come il traditore della causa dei palestinesi e del panarabismo. Ma, ancora una volta, l’Egitto aveva solo anticipato i tempi: molti altri Paesi arabi e la stessa Organizzazione per la liberazione della Palestina finiranno per riconoscere Israele e stringere accordi di pace. Agli inizi degli anni ’90, le speranze – poi infrante – di una pace definitiva in Medio Oriente riportarono il Cairo al centro della scena regionale. Ma Sadat non fece in tempo a vedere la storia dargli ragione: fu ucciso da un commando dei Fratelli Musulmani nel 1981, "giustiziato" per il suo tradimento. Il vice-presidente Hosni Mubarak ne prese il posto.La lunga stagnazioneAnche se in questi giorni la folla che protesta per le vie del Cairo mostra delle foto di Hosni Mubarak ritoccate per richiamare visivamente Hitler, se c’è un dittatore che ricorda l’attuale (ancora per quanto?) presidente egiziano, questi è sicuramente il Segretario generale del partito comunista sovietico Leonid Breznev, l’uomo della lunga, grigia e desolante stagnazione che mise in ginocchio la superpotenza comunista. Similmente, sotto Mubarak, al potere da trent’anni, l’Egitto si è via via svuotato di ogni spinta propulsiva: sono stati abbandonati i grandi ideali di modernità e panarabismo, nonostante la retorica stantia di regime; represso ogni dissenso con la scusa di garantire l’ordine e di frenare l’integralismo; gestiti in modo populista, inefficiente e clientelare le ricchezze del Paese e la massa di aiuti economici fornita ogni anno da Stati Uniti e Unione Europea. La centralità e l’unicità regionale del Paese sono apparsi sempre meno evidenti e, agli occhi delle altre élite di potere arabe, sempre più insopportabili e ingiustificate le velleità di paese-guida che il Cairo continuava a propagandare.L’autunno del FaraoneÈ davvero difficile non esprimere un giudizio severo verso il suo governo, in particolare per l’enorme corruzione che si annida nel Partito nazionale democratico (Pnr), al potere da sempre e che ormai ha perso ogni contatto con la società vera egiziana. Certo, contro Mubarak hanno giocato molti fattori: durante questi trent’anni egli ha dovuto lottare contro movimenti islamisti violenti che hanno insanguinato a lungo il Paese, accanendosi anche contro i turisti stranieri, nel tentativo di indebolire il regime. Paradossalmente essi lo hanno rafforzato: per difendersi dal "pericolo islamista", l’Occidente ha accettato di sostenere a qualsiasi costo il potere del "Faraone", il quale ha avuto buon gioco a scatenare una dura repressione delle opposizioni in nome della stabilità e della lotta al fanatismo religioso. Con il tempo, ogni opposizione – anche quelle moderate e liberali – sono finite schiacciate dal Moloch del partito-stato del presidente. Ancora più grave la sua volontà di trasformare l’Egitto repubblicano in una dinastia, cercando di imporre il figlio Gamal quale suo successore: una protervia che oggi paga a caro prezzo.Ma anche a livello internazionale l’Egitto non è stato aiutato. E in due modi contrapposti. Da un lato, la sua politica di favorire la pace fra palestinesi e israeliani è stata minata dal sistematico mancato rispetto degli accordi presi da parte israeliana (che hanno umiliato agli occhi delle masse arabe la moderazione egiziana) e dalla deriva estremista fra i palestinesi. Più il processo di pace naufragava, e più l’immagine di Mubarak si appannava nella regione. Ma anche l’Occidente lo ha indebolito: l’avventurismo di Bush ha posto i suoi alleati regionali in una situazione sempre più insostenibile; la quiescenza della comunità internazionale dinanzi alla corruzione del governo, alla manipolazione delle elezioni e alla repressione del dissenso hanno fatto sì che Mubarak percorresse fino in fondo il sentiero verso il disastro attuale.Un alto funzionario governativo non mostra tuttavia dubbi: «Ci aspettano tempi difficili e bui. In ogni caso, chiunque sarà al timone, l’Egitto continuerà a essere la pietra angolare del Medio Oriente e del mondo arabo». Speriamo solo, rispetto al passato, che sia una pietra meno insanguinata e più liberale per tutti i suoi abitanti.
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