lunedì 20 aprile 2020
I produttori orientali hanno chiuso le frontiere rimpinguando le scorte, però il commercio ha attivato i suoi meccanismi di osmosi. In pericolo 113 milioni di persone che già lottavano contro la fame
Il del grano a Ghaniabar, nella regione indiana dell'Uttar Pradesh

Il del grano a Ghaniabar, nella regione indiana dell'Uttar Pradesh - Ansa

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«La produzione cerealicola mondiale raggiungerà un nuovo record quest’anno grazie a condizioni climatiche favorevoli», tuttavia «l’attuale crisi influirà negativamente» e vi è «il rischio reale che la gente sia costretta a ridurre il consumo alimentare». Parole della Fao, ma il coronavirus non c’entra. Questo testo risale infatti al novembre 2008 e l’abbiamo ripescato dagli archivi perché l’agenzia dell’Onu per l’alimentazione e l’agricoltura sembra considerare l’emergenza Covid grave quanto la crisi finanziaria che cambiò il mondo. Potrebbe registrarlo martedì il Rapporto Globale sulle crisi alimentari. Due giorni fa è stata firmata una dichiarazione con l’Unione Africana per evitare che la pandemia limiti l’accesso al cibo per le comunità più vulnerabili».
In realtà, per Mauro Fanin, uno dei “player” privati europei più importanti nel commercio e nella trasformazione di amidi e proteine (guida la Cereal Docks, che ha 240 addetti, fattura 800 milioni di euro e tratta 2,6 milioni di tonnellate di soia, mais, grano, oli e farine, lecitine e attivi vegetali, <+CORSIVO50>ndr<+TONDO50>), «il peggio è passato, anche se solo venti giorni fa la confusione limitava gli approvvigionamenti nei porti del Sudamerica, in particolare per le navi e gli equipaggi provenienti o destinati ai porti europei, Italia in primis». Ciò che distingue una pestilenza antica da una moderna sono i tempi di reazione: «Abbiamo semplicemente cambiato porti e alcune delle nostre navi – spiega Fanin – hanno fatto rotta verso Usa e Canada, dove si continuava a lavorare regolarmente». Ciò avveniva nella seconda metà di marzo, mentre il mondo sembrava fermarsi e i produttori orientali chiudevano le loro frontiere e rimpinguavano le scorte alimentari, facendo salire la tensione; nelle stesse ore, il commercio attivava i suoi invisibili meccanismi di osmosi.
«Quando Trump ha deciso di applicare forti dazi sui prodotti destinati alla Cina, semi oleosi in particolare – ricorda il trader –, in poco tempo l’Europa ha iniziato a rifornirsi dagli Usa e i cinesi si sono spostati quasi esclusivamente in Brasile. Il mercato ritrova sempre il proprio equilibrio». Quello delle <+CORSIVO50>commodities<+TONDO50> sarebbe dunque in piena fase due: «Tutti continuano a fare il loro mestiere» conferma Fanini. Secondo il quale non ci sono i numeri per una carestia.
Esistono, invece, 113 milioni di persone che già prima del Covid–19 lottavano «con una grave insicurezza alimentare acuta a causa di choc o crisi preesistenti», dicono alla Fao, sottolineando che, se il coronavirus colpisse il Sud del mondo, le catene di approvvigionamento interno si spezzerebbero. Avvenne con ebola. Sui mercati internazionali, però, le medie dei prezzi del grano e del mais sono scese, tra febbraio e marzo. È montata la domanda ma le scorte erano immense e il crollo del petrolio ha liberato gli stock di cereali e semi oleosi usati per produrre biocarburanti. I prezzi sono stati volatili ma «i volumi degli scambi di semi oleosi sono sostanzialmente invariati, anche se le scorte finali globali sono leggermente diminuite» osserva Franco Negri di Gaotrade. L’analista sottolinea che «la produzione globale di grano è record e Cina, Unione Europea, India, Russia e Stati Uniti hanno prodotto livelli più che sufficienti per soddisfare la domanda globale».
Il riso, alla base della dieta dei popoli asiatici, vede aumentare i prezzi perché con il Covid 19 è scattato l’accaparramento sui mercati locali e i grandi produttori, come Vietnam e Cambogia, hanno limitato l’export, esattamente come avviene in guerra, quando fame e politica si sposano. La Cina ha aumentato i prezzi riconosciuti agli agricoltori e lo Sri Lanka li ha calmierati. Come in Africa, dove l’aumento del riso ha generato un effetto domino sulle commodities locali in Burkina Faso, Gambia, Niger, Madagascar. Anche i grandi esportatori di grano dell’Est europeo hanno chiuso i rubinetti.
Reazioni fisiologiche, ma scaglionate nei tempi e nelle scelte. L’Argentina, ad esempio, che garantisce il 20% della produzione mondiale di soia, si è limitata ad aumentare del 5% le tasse sull’esportazione di oleaginose e cereali. «È evidente che non siamo di fronte a una penuria di materie prime, perché veniamo da anni in cui la produzione agricola mondiale è cresciuta costantemente – commenta Fanin – ma ad un blocco o meglio una forte limitazione della logistica, che è in via di superamento. Quando sarà alle nostre spalle, ci avrà insegnato che non è sensato delegare agli altri la propria sicurezza nell’approvvigionamento alimentare, così come la produzione di mascherine». L’Italia importa il 54% delle materie prime alimentari.

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