venerdì 4 febbraio 2011
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«Welcome», sorride con aria impacciata il soldatino che monta la guardia poco lontano dall’hotel. Non so se si riferisce al benvenuto che mi sta preparando dietro l’angolo una masnada di delinquenti con le spranghe in mano. Mi metto a correre col fiato in gola fino a raggiungere il taxi che sosta più avanti, nel punto dove due carri armati bloccano il traffico costringendo a fare una deviazione. Mi rendo subito conto che uscire questa mattina non è stata una buona idea. Non tanto per gli spari che continuamente scuotono l’aria, ormai ci sono abituato. Ragazzi in maglietta nera e giovanotti nerboruti, armati di bastoni e mazze da baseball, controllano le auto con a bordo delle facce straniere. È partita la caccia ai reporter dei giornali e delle tv estere, considerati pregiudizialmente favorevoli ai rivoltosi e quindi nemici del fronte pro-Mubarak. Nelle vicinanze di piazza Tahrir, dove è in corso la battaglia, vengo bloccato da una squadraccia di avanzi di galera. Non è un modo di dire, 16mila criminali sono evasi (per essere più precisi li hanno lasciati fuggire) e dopo i saccheggi e gli atti di vandalismo adesso sono stati reclutati dai servizi segreti per andare ad ingrossare le file di sostenitori del regime. Con gesti bruschi mi fanno scendere dal taxi che perquisiscono alla ricerca di una telecamera o di una macchina fotografica, attrezzature sequestrate o distrutte a molti colleghi che hanno avuto la mia stessa disavventura. Per fortuna non ho nulla del genere con me. «You are a spy!» (sei una spia!) mi urla in faccia quel che sembra essere il capo-ronda, dall’aspetto inconfondibile di agente in borghese. Il mio interprete, Sayed, un gigante vestito di nero, li rassicura. «È un turista italiano, un mio amico che sto conducendo all’aeroporto. Per favore, lasciateci andare, se no rischiamo di perdere il volo». Giriamo attorno alla piazza dove si è barricato qualche migliaio di dimostranti che non si stanca di gridare «Erhal, Mubarak!» (vattene, Mubarak!) in faccia agli assalitori. Mi trovo dal lato opposto del Museo Egizio, un edificio rosa con la facciata annerita dall’incendio provocato l’altra sera. Una folla minacciosa circonda un vecchio palazzo, che mi dicono essere la sede di “Elghaad” (Domani), il partito dell’opposizione liberale il cui leader, Aymani Nur, è stato tre anni in prigione dopo essersi candidato nelle elezioni presidenziali del 2005 contro Mubarak. Nel giro di due giorni l’atmosfera è totalmente cambiata, il milione di persone che martedì ha riempito pacificamente il centro del Cairo nella più grande manifestazione di massa contro il rais adesso ha lasciato il posto a una folla esagitata e violenta. I problemi non finiscono quando rientro in hotel dove i servizi di sicurezza trattengono alcuni operatori tv, colpevoli d’aver ripreso immagini dell’albergo sotto assedio. La polizia ha arrestato tre giornalisti della tv polacca Tvp e al momento non li ancora rilasciati. Rilasciati invece in serata, dopo il fermo, il responsabile dell’ufficio del Cairo del Washington Post, Leila Fadel, e una fotografa del giornale, Linda Davidson, insieme a un loro interprete. È andata peggio al collega della tv turca Trt, picchiato e derubato di videocamera, soldi e telefonino da una ronda pro-Mubarak. Mentre risulta disperso un reporter della tv svedese Svt, Bert Sundstrom. Ma c’è confusione perché, secondo la tv austriaca Ors, un reporter svedese è invece gravissimo in ospedale: è stato accoltellato alla gola e al petto.È già buio quando mi metto a scrivere. Fuori le sparatorie s’infittiscono, dentro cresce l’angoscia per possibili attacchi. «Welcome», benvenuti nel Paese del presidente-Faraone.
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