venerdì 2 settembre 2011
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Sahafi Qurynà». Si presenta così Rashid, ventiquattro anni, un taccuino in mano e l’orgoglio che verosimilmente lo accompagnerà per il resto della vita di essere diventato “sahafi”, cioè giornalista del neonato quotidiano Qurynà, molto vicino al Consiglio nazionale di transizione, uno dei cento e passa fogli volanti che le tipografie della Cirenaica hanno cominciato a stampare all’indomani del 17 febbraio scorso. E quando Rashid scopre che anche l’inviato italiano fa il suo stesso mestiere si scioglie in un miscuglio di imbarazzo e di fierezza. Benvenuti a Bengasi, capitale della rivoluzione libica, lo stesso ammasso disordinato di decrepiti palazzi coloniali e di povere case che avevamo visto nel mese di aprile, il traffico caotico sul lungomare, l’odore penetrante degli idrocarburi che esalano dal lago solforoso alle spalle dei due grandi alberghi, l’Uzu e il Tibesti, la pietosa imitazione di un Occidente lontanissimo nelle scialbe vetrine dei negozi che promettono “Milano Fashion” e “Moda Italia”. Niente sembra cambiato, eppure – in un surreale rovescio del gattopardesco “bisogna cambiare tutto perché non cambi niente” – proprio perché esteriormente nulla è mutato, nel profondo c’è stato un ribaltamento. Lo si avverte meglio in questo fatidico primo settembre, quarantaduesimo anniversario del colpo di Stato: anniversario decapitato, finalmente, a dispetto delle acri parole del Colonnello mandate in onda da una tv siriana che ancora incitano alla resistenza, una vittoria che tuttavia non riesce a diventare un inno alla gioia, anche se ora il rais si nasconde chissà dove e di quel potere conquistato nel 1969 senza nemmeno una goccia di sangue versato gli rimane nient’altro che un pugno di sabbia. Già il prezzo della rivoluzione è stato altissimo: «Cinquantamila morti», proclama Ahmed Omar Bani, portavoce militare del governo di transizione, ma la cifra vera non la sapremo mai. E sopra la catasta di vittime, l’angoscia di una retrocessione dopo mesi di ebbrezza e di illusioni. Se dovessimo mettere Bengasi sul lettino dello psicoanalista dovremmo concludere che il suo è un caso di smagliante depressione. Lo vedi al calare della sera mentre si festeggia Eid al-Fitr, la fine del Ramadan in quel dissimulato senso di vuoto, quella falsa allegria che dilaga nella Piazza del Tribunale (ora dei Martiri), percepibile nonostante le urla, le risate, lo sventolio di caricature di “mushafshufa”, lo scapigliato rais, divenuto «topo di fogna», «ratto in fuga», con i giovanissimi che sgommano sulle motociclette e i meno giovani che guardano il mare, sgranocchiando le “ghraiba, i dolci della festa.«Glielo dico così, come mi viene dal cuore – dice Abdel Zatturi, ingegnere minerario in pensione con un lungo soggiorno in Italia alle spalle –: io temo che questa rivoluzione toglierà alla Cirenaica quello che le spetta, mortificherà i suoi meriti e la spoglierà ancora una volta dei propri diritti. L’ha fatto Gheddafi, lo faranno i nuovi governanti. Bengasi tornerà a essere Bengasi».Zatturi rischia di essere buon profeta. Il Cnt si sta trasferendo a Tripoli, dove ha requisito metà del già sovraffollato Hotel Radisson: i suoi ministri, i suoi delegati si fanno vedere molto meno a Bengasi. «È il cuore della rivoluzione che se ne va – dice Zatturi – e dovrà fare i conti con Misurata, con i berberi, con quelli che sono arrivati a Tripoli». Non solo. La rivoluzione libica dovrà misurarsi anche con il fondamentalismo islamico. Già lumeggia una bozza di Costituzione (se ne può consultare una appesa nella bacheca della sede del governo provvisorio in Piazza dei Martiri, fra un ritratto di Gheddafi dal corpo di cane e un elenco di shabab caduti in battaglia) che non lascia grandi dubbi: «L’islam – recita l’articolo 1 – è la religione dello Stato ed è la principale fonte per la legge e la giurisprudenza». Come dire, la sharia, ovvero la legge di Dio, a far da fondamento alla Costituzione. Concetto che si ritrova anche nei titoli di qualche giornale diffuso a Bengasi, dove la fede islamica è considerevolmente più accesa che nella laica Tripoli e dove i gruppi jihadisti (la cui ombra avevamo individuato la scorsa primavera, quando la guerra di liberazione la conduceva la sbrindellata armata di shabab e il Cnt era ancora un soggetto misterioso) hanno buon gioco a soffiare sul malcontento. Quel malcontento che qui a Bengasi si insinua sottile, fra i refoli di vento rovente che soffiano dal deserto e che giunge rapido fino a Tripoli, dove ancora si festeggia. In attesa di una discordia fra i vincitori che è ormai più che una promessa.
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