domenica 9 febbraio 2020
A un anno dall’accordo «Remain in Messico» tra il presidente Usa e il collega López Obrador. Respinti al confine 62mila profughi centroamericani, in attesa del visto di Washington: concesso solo a 117
È invisibile ma durissimo il muro di Trump

Epa

COMMENTA E CONDIVIDI

Jorge Alexander Cerbano Malara aveva atteso undici mesi. Alla fine, però, l’udienza era stata fissata a El Paso per l’11 dicembre 2019. Jorge Alexander non ha, però, potuto presentarsi. Tre settimane prima dell’appuntamento, il 20 novembre, il suo corpo smembrato è stato trovato alla periferia di Tijuana. Questo salvadoregno di 35 anni è diventato uno dei simboli tragici di “Remain in Mexico”, il programma varato un anno fa dall’amministrazione statunitense. Più di Carlos Gómez Perdomo, l’honduregno che ha inaugurato la politica di trasferimento oltreconfine dei richiedenti asilo, il 29 gennaio 2019. Il giorno prima, la ministra del dipartimento di Sicurezza interna statunitense, Kristjen Nielsen, aveva convocato le televisioni sul ponte di San Ysidro – che collega San Diego con la messicana Tijuana – per presentarla.

All’epoca l’attenzione, dentro e fuori dagli Usa, era concentrata sul braccio di ferro per il muro fra il presidente Donald Trump e l’opposizione democratica, decisa a negargli i fondi per edificarlo. In realtà, dietro le quinte, il capo della Casa Bianca aveva già cominciato a costruire il vero muro, quello invalicabile della burocrazia. Perché di quel filo spinato, l’accordo “Remain in Mexico” è uno dei cardini. E, per paradosso, Trump l’ha dispiegato con l’aiuto di un insospettabile: il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, leader di ciò che resta di sinistra in Messico e fervente nazionalista. Il piano ha consentito di trasferire nel Paese vicino, in attesa del responso delle corti Usa, oltre 62mila richiedenti asilo. Donne, uomini e perfino bambini – come ha documentato Human Rights Watch –, un quarto del totale, di cui 500 neonati, sistemati in alloggi di fortuna, come i 1.500 accampati in tende a ridosso del ponte di Matamoros. In maggioranza sono honduregni e guatemaltechi ma anche cubani, salvadoregni, ecuadoriani, venezuelani, nicaraguensi e, da gennaio, brasiliani. Un terzo di loro – in base all’ultimo studio dell’Università statunitense di Syracuse – aspetta ancora la prima udienza davanti a un giudice. Su poco più di 9mila procedimenti conclusi, inoltre, appena 117 profughi – meno dello 0,2 per cento del totale – hanno ottenuto lo status di rifugiati. Non sorprende, dato che solo il 5 per cento può contare su avvocato. La gran parte non può permetterselo e trovare un legale volontario a distanza non è semplice.


4
il livello di allerta (come Iraq e Afghanistan) del Tamaulipas per gli Usa: lì finiscono i richiedenti asilo

16mila
i minori profughi mandati ad attendere in Messico, nel 2019, l’esito della domanda di asilo

17
i migranti morti nel 2019 mentre erano tenuti in custodia in centri di detenzione dalle autorità statunitensi

0,2%
è la quota di profughi, ricollocati oltre confine in base all’intesa “Remain Mexico”, che hanno ottenuto l’asilo


Sempre in base ai dati della Syracuse University, i richiedenti asilo rimasti negli Usa hanno sette volte la possibilità di procurarsene uno rispetto ai profughi inviati oltreconfine. Senza una rappresentanza legale, inoltre, questi ultimi spesso non riescono ad orientarsi nel sistema statunitense. Perfino conoscere il calendario delle udienze diventa uno sforzo titanico. La metà, dunque, finisce per non presentarsi in aula nei tempi giusti. Il che implica l’automatica chiusura del caso con un ordine di espulsione.

Non è, tuttavia, la peggiore conclusione possibile, come la storia di Jorge Alexander Cerbano Malara dimostra. Con 34.582 omicidi solo nel 2019, il Messico è tutt’altro che un “Paese sicuro” per i migranti. Specie nelle città di frontiera, incluse le otto dove Washington spedisce gli aspiranti rifugiati. In fuga dalla violenza bellica che dilania il Centro America, questi ultimi si ritrovano intrappolati nella narco-guerra messicana. «A Nuevo Laredo abbiamo pazienti che non escono dai rifugi per non essere rapiti o uccisi », racconta Sergio Martín, capo- missione di Medici senza frontiere in Messico. «Gli Stati Uniti spingono i richiedenti asilo tra le braccia dei trafficanti che controllano le rotte migratorie in questo Paese», aggiunge.


L'isolamento
Le zone in cui i latinos vengono internati sono tra le più violente della nazione. Medici senza frontiere: «A Nuevo Laredo abbiamo pazienti che non escono dai rifugi per non essere rapiti o uccisi»

Alcuni dati raccolti dall’organizzazione a Nuevo Laredo lo dimostrano. L’80 per cento degli assistiti nei primi nove mesi del 2019 ha riferito almeno un’aggressione. Il 43,7 per cento delle volte il fatto era avvenuto al massimo la settimana precedente. Nel settembre 2019, il 43 per cento dei pazienti di Msf aveva subito un sequestro, il 12 per cento vi era sfuggito appena in tempo. Il mese successivo, la quota era schizzata al 75 per cento. «Parliamo solo di chi si rivolge a noi», sottolinea Martín. Il numero, dunque, potrebbe essere ben più alto, anche perché la gran parte non denuncia per paura. Del resto, Nuevo Laredo si trova nello Stato del Tamaulipas, meta considerata «pericolosa» dal dipartimento di Stato Usa al pari di Iraq e Afghanistan. Negli stessi mesi, l’Instituto para las mujeres en la migración ha registrato 418 rapimenti di richiedenti asilo in Chihuahua, Tamaulipas e Baja California. «Remain in Mexico ha danneggiato già troppe vite umane», ha affermato il vescovo di El Paso, Mark Seits. Per Dylan Corbett dell’Hope Border Institute, tuttavia, il programma ha centrato l’obiettivo: «È stato pensato come un deterrente, come le separazioni familiari ma senza suscitare lo stesso clamore. Doveva far calare gli arrivi e ci è riuscito, sulla pelle dei migranti». Retorica a parte, il muro fisico ormai è secondario. Trump ha già la sua barriera e si chiama Messico.



© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI