venerdì 29 marzo 2024
Da quasi sei mesi, Free Jerusalem, Rabbi for human rights, Culture of solidarity e Torat Tzedek inviano cibo alle comunità più vulnerabili della Cisgiordania. "Un messaggio concreto di vicinanza"
Due giorni alla settimana i volontari preparano i pacchi per le comunità vulnerabili della Cisgiordania

Due giorni alla settimana i volontari preparano i pacchi per le comunità vulnerabili della Cisgiordania

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Il check-point è aperto. Il mini-convoglio si lascia Gerusalemme alle spalle ed entra a Hizma, in Cisgiordania. Prima passa il camion, poi l’auto. «Il segreto è arrivare prima delle 9 che, qui, però, sono le 8. Almeno credo. Perfino sapere l’ora è complicato da queste parti», scherza Anton Goodman. Questo terzo venerdì di Ramadan è un giorno insolito. Non solo perché coincide con il Venerdì Santo dei cattolici (gli ortodossi celebreranno la Pasqua il 5 maggio). Ieri è entrato in vigore l’orario estivo, che porta indietro le lancette di 60 minuti. Ma solo in Israele. Nei Territori il cambio avverrà fra due settimane. Alcuni sobborghi intorno a Gerusalemme Est, però, si regolano sull’orologio di Tel Aviv. Nonostante l’intreccio di orari, il furgoncino di Samir attende nel luogo indicato: uno sterrato appena fuori Hizma. I sette uomini trasferiscono i settanta pacchi da un cassone all’altro in una decina di minuti. L’imperativo è fare in fretta. C’è molta tensione. «Proprio in queste ore, le forze armate stanno cercando di sgomberare dalla propria terra venti famiglie beduine dalla zona di Acraba. Due giorni fa, sulla strada per Gerico, un palestinese ha sparato sulle auto in transito e due attivisti sono rimasti feriti. Non erano del nostro gruppo ma li conosciamo bene. Può sembrare assurdo la violenza colpisca proprio chi va ad aiutare. Ma la guerra è tutta un paradosso», dice Anton. Per questo è meglio che le 1,5 tonnellate di cibo viaggino su un camion con targa verde, cioè palestinese. Samir si mette alla guida. Direzione Nablus, dove dovrà consegnare a sette comunità rurali sotto attacco dei coloni i viveri raccolti dai colleghi israeliani. «Certo che qualcuno mi accusa di “lavorare con il nemico”. Altro che nemico, gli attivisti israeliani vengono picchiati dai coloni proprio come noi», afferma mentre chiude lo sportello. «Aspetta, prendi anche queste scatole di datteri che è Ramadan», dice Anton, direttore delle partenership di Rabbis for human rights, organizzazione che riunisce 150 rabbini di Israele. Insieme a Culture of solidarity e Torat Tzedek, sostiene la “colletta alimentare” inventata Free Jerusalem all’indomani del 7 ottobre. L’idea è cresciuta poco a poco fino a raccogliere, dall’inizio del Ramadan – con una campagna di fundrising online ideata dalle associazioni partner e a cui si sono uniti altri gruppi pacifisti –, oltre 75mila euro per l’acquisto degli alimenti, per un totale di 1.100 pacchi e una trentina di collettività raggiunte. Un cifra inimmaginabile quando Free Jerusalem – movimento di attivisti indipendenti – aveva avviato la raccolta spontanea di generi di prima necessità per i villaggi beduini vittima dell’aggressione di Hamas. Rientrata l’emergenza, da novembre, gli aiuti sono stati indirizzati alle comunità più vulnerabili della Cisgiordania. Il blocco dei permessi di lavoro in Israele sta strangolando l’economia dei Territori. Come più volte denunciato l’Onu, poi, dal 7 ottobre c’è stato un incremento esponenziale della violenza dei coloni per impedire a pastori e agricoltori palestinesi di coltivare i campi o pascolare le greggi per convincerli a lasciare la terra. «Una chiara ingiustizia che come ebreo ortodosso non può lasciarmi indifferente», sottolinea Anton, mentre sistema la kippah. Gli ortodossi sono, in genere, considerati conservatori e vicini al governo di Benjamin Netanyahu. L’ala ultrà di Ha Mavasser è pronta allo scontro con la Corte Suprema che vuole abolire l’esenzione alla leva per gli studenti delle scuole religiose. «Tanti utilizzano la religione per giustificare posizioni estreme. Ma la Torah è chiara: Dio ci invita ad essere “guardiani” dei nostri fratelli, affinché i loro diritti umani siano rispettati. In questa Terra dilaniata dalle differenze, dunque, la fede può essere uno spazio di incontro».
«Spazio di incontro», è l’espressione che viene in mente quando si entra nel “quartier generale” della colletta, situato nello storico complesso dello Ymca, nel centro di Gerusalemme in cui si muove un’umanità variegata: Wilamina e Niki, aspiranti rabbine di 29 e 23 anni, Sam, studente di ebraismo di 29 anni, Steve, insegnante in pensione, Tami e Nili, maestre di yoga, Kadrina, monaca buddista , Daniel, 34 anni, operatore sociale, Nana, 30 anni, addetta marketing, arrivata quasi per caso, la prima volta, su invito di Daniel. Un cartellone spiega la quantità da mettere nei vari scatoloni, piazzati sulle sedie al centro della stanza. “Nella nebbia un faro”, c’è scritto – in inglese, arabo e ebraico – su ogni cartone. A coordinare l’imballaggio realizzato da quasi sei mesi due volte alla settimana dai circa cento volontari suddivisi in gruppo di 20 o 30, Noa Dagoni, di Free Jerusalem, una delle pioniere dell’iniziativa. «Non si tratta di solo di distribuire del cibo. Il nostro è un messaggio tangibile di solidarietà. Così diciamo no alla guerra e all’occupazione. Non, però, con le parole bensì facendo qualcosa per e soprattutto con i palestinesi», spiega l’avvocata 32enne. Un gesto, quello di raccogliere e donare cibo ai vicini in difficoltà, che assume un significato ancora più forte nel mezzo della polemica sugli aiuti umanitari per Gaza.
Nella Striscia, sigillata dai militari israeliani, passa, nei giorni migliori, la metà dei 500 convogli minimi necessari a sfamare gli abitanti allo stremo. L’Onu e le organizzazioni internazionali sostengono che i controlli continui ostacolino il flusso. Due giorni fa, anche la Corte di giustizia dell’Aja bacchettato Tel Aviv. «Abbiamo protestato per chiedere di far passare più aiuti nella Striscia. Vorremmo inviare anche noi qualcosa ma non ce lo consentono – conclude Noa –. L’unico modo per non essere complici è aiutare almeno la Cisgiordania»

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