sabato 16 marzo 2019
Il video è stato bloccato in ritardo. Tecniche analoghe ai jihadisti
Quella diretta sui social ha un effetto devastante
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La telecamera fissata sulla testa; la diretta Facebook già preannunciata su Twitter, insieme a un delirante manifesto politico. Come a dire: state collegati, «stay tuned», adesso arriva il bello. Una strage in live-streaming, un video in soggettiva accessibile potenzialmente a miliardi di persone in tempo reale in tutto il pianeta. Diciassette minuti come un videogioco, nel quale però sono state abbattute decine di persone in carne e ossa.

Il video è stato rapidamente cancellato da Facebook, Twitter e Youtube, così come tutti i profili dell’assalitore e i messaggi di elogi e sostegno per la strage. Ma, per quanto tempestivi, non si è mai abbastanza efficaci, non lo si può essere completamente: il video integrale era stato già condiviso sui social, mandato in onda dal notiziario di una emittente televisiva e pubblicato da diversi siti web. La strage ora è «congelata» nei suoi 17 minuti e moltiplicata all’infinito, in un re-play dell’orrore inarrestabile, nonostante gli inviti delle forze dell’ordine e del governo neozelandese a non condividere il materiale, e gli sforzi di Facebook per rimuoverne ogni traccia.

È un copione che già conoscevamo dai tempi del Daesh: le esecuzioni filmate e poi diffuse per dilatare la propaganda e aumentare l’orrore e il terrore nel mondo. In Nuova Zelanda c’è, di nuovo, la variante del live-streaming per fare di una strage uno show in diretta per un pubblico potenzialmente immenso. Era già accaduto nel 2017, quando in Thailandia un uomo filmò con la telecamera dello smartphone l’omicidio della figlia e il video fu intercettato e rimosso da Facebook dopo 370mila visualizzazioni. Ma chi rende infinito l’orrore, in ultima analisi, sono gli utenti.

Chi guarda e condivide il video, allargandone il raggio d’azione, allungandone la vita ed entrando, in definitiva, nella partita perversa che colui che ha postato il video ha deciso di fargli giocare. Nel caso della strage di Christchurch, così come in quello delle foto personali rubate alla deputata italiana Giulia Sarti, i giocatori siamo (anche) noi. È la nostra curiosità, quella che va educata. Ciascuno per la sua parte, ciascuno per il suo pezzetto di responsabilità: non aprire il video postato da un killer in cerca di imitatori o di propagandare le sue follie, non contribuire alla sua diffusione, così come rifiutarsi di guardare immagini private «socializzate» con la volontà di far male, può essere una buona risposta a chi vuole trasformare la Rete in una fogna. Perché se la violenza diventa uno spettacolo è (anche) colpa degli spettatori.

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