mercoledì 7 novembre 2012
Fuggono da guerre, governi liberticidi e carestia. Ma precipitano nell’incubo di centri di detenzione dove regnano violenza e arbitrio. E da cui si scappa soltanto corrompendo gli aguzzini. (Paolo Lambruschi)
Quei gironi infernali dimenticati dal mondo
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​Le porte dell’inferno sono sempre spalancate per migliaia di profughi eritrei, somali e sub sahariani in Libia sospesi in un limbo senza ritorno. Nulla è cambiato nonostante la rivoluzione. E mentre il paese prova a darsi una parvenza di normalità eleggendo un nuovo premier, continua ovunque la caccia al nero praticata da gruppi armati fondamentalisti.Nelle carceri i richiedenti asilo, tra i quali donne e bambini anche piccoli, vengono stipati in spazi angusti, malnutriti, privati di assistenza medica, torturati e uccisi dai miliziani. E sottoposti a pressioni perché accettino il «rimpatrio volontario». Due i capi d’accusa, l’ingresso illegale ed essere mercenari del vecchio regime. La prova è una, il colore della pelle. Negli ultimi 20 giorni, la guardia costiera italiana è intervenuta per salvare quasi 1000 persone a bordo di carrette del mare alla deriva partite dalla Libia. L’ultimo naufragio è avvenuto sabato scorso davanti alle coste libiche. Sono morte 11 somali, tra cui due bambini. Le motovedette italiane hanno salvato altri 70 naufraghi. Sono la punta dell’iceberg, molti sono riusciti a evadere corrompendo miliziani e funzionari che, come ai bei tempi della Jamahiriya, organizzano l’"ultimo miglio" del traffico di esseri umani verso l’Europa. Il prezzo della libertà dal carcere è 800 dollari, mentre un posto su un barcone senza pilota arriva a 2400. Chi non ha i soldi diventa schiavo dei militari o di ricchi libici.Cosa sta succedendo a sud delle nostre sponde, e perché gli sbarchi sono rallentati dopo l’ultimo accordo tra Roma e il nuovo governo di Tripoli della scorsa primavera?Una risposta l’ha fornita venerdì 12 ottobre don Mosè Zerai, sacerdote eritreo e presidente dell’Agenzia Habeshia, riferimento in Italia della diaspora, che ha presentato al Parlamento europeo e alla Commissione di Bruxelles un dossier dettagliato e inquietante sui nuovi orrori delle carceri nella Libia post Gheddafi (che continua a non aderire alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati) e chiede a Ue, Unhcr e al governo italiano di fermare la caccia al nero. Don Zerai ha raccolto le testimonianze di profughi che hanno varcato il confine libico negli ultimi sei mesi nella vana speranza di raggiungere le coste e comperare dai trafficanti un passaggio su una carretta del mare verso le coste italiane. E che, rastrellati e derubati dalle milizie, marciscono in carcere perché anche nella nuova Libia per uscire bisogna corrompere.Sono perseguitati in fuga dallo stato caserma dell’Eritrea, dalla Somalia devastata e affamata e dall’Etiopia, che sono tornati in Libia per provare a raggiungere l’Europa perché la via che porta dal Sinai a Israele, battuta in massa dal 2009 – quando il vecchio accordo italo-libico sigillò il Mediterraneo – è diventata una trappola mortale.Quanti sono? Il rapporto Habeshia prende in considerazione 9 degli oltre 20 centri di detenzione libici: Bengasi, Homs, Twaisha, Sibrata Mentega Delila, Kufra, Ganfuda, Mishrata, Zawya e Sharimetar. In otto di queste galere sarebbero rinchiusi oltre 3400 subsahariani, mentre il numero di detenuti a Kufra è ignoto. Italia e Ue hanno contribuito a costruirle nel decennio passato per esternalizzare la lotta all’immigrazione irregolare. A luglio un rapporto della Fondazione IntegrAzione ricordava che tre campi di prigionia libici (Kufra, Sebha e Garyan) sono stati finanziati nel biennio 2004-2005 con fondi dati al Viminale dalla legge 271 del 2004 dopo i primi accordi con il defunto rais. Lo confermava, ricorda l’Asgi, un resoconto della Commissione europea del 2005 su un viaggio nei centri di detenzione che parla di stanziamenti rientranti sotto la voce cooperazione. E nel 2007 verso la Libia andarono 2 milioni di euro dell’Ue per il «rimpatrio volontario». «Migranti, profughi e richiedenti asilo continuano a morire in prigione – denuncia il rapporto – e fuori non cessa la caccia al nero che continua a riempirle: arresti sistematici nel sud di giovani che hanno appena passato la frontiera, retate nelle città e rastrellamenti sulla costa».Alle discriminazioni razziali si sommano le persecuzioni religiose. «I miliziani – prosegue don Zerai – costringono tutti a pregare secondo la fede islamica, durante il ramadan hanno obbligato tutti a osservare il digiuno. Simboli cristiani ed effigie di santi sono proibiti, alle donne sono state strappate le croci al collo, chi ha un tatuaggio ispirato al cristianesimo lo nasconde per non venire picchiato. Le donne devono coprirsi e portare il velo. Molte famiglie sono state divise perché uomini e donne non possono stare insieme».Chi reagisce viene torturato e frustato. Una punizione frequente è il finto annegamento, i più giovani vengono invece fatti correre e presi a fucilate come animali. «Storie che ascoltiamo da anni, dimenticate, come quelle – conclude il prete eritreo – della tragedia parallela degli eritrei nel Sinai, catturati dai predoni beduini, torturati e incatenati in prigioni improvvisate finché non viene versato un riscatto arrivato a 50 mila dollari».Arrivano urla disperate dai due deserti affacciati sul mare di mezzo. Ma nessuno pare ascoltarle.
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