mercoledì 13 settembre 2023
Il 13 settembre 1993 si tenne a Washington la cerimonia di ratifica di un'intesa che è rimata, in gran parte, sulla carta
Yitzhak Rabin, Bill Clinton e Yasser Arafat durante la firma degli Accordi di Oslo del 13 settembre 1993

Yitzhak Rabin, Bill Clinton e Yasser Arafat durante la firma degli Accordi di Oslo del 13 settembre 1993 - Archivio

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Gli Accordi di Oslo compiono 30 anni. Il 13 settembre 1993 si tenne a Washington, alla Casa Bianca, la cerimonia ufficiale di ratifica dell'intesa che, dopo mesi di intensi negoziati segreti, era stata raggiunta a Oslo, in Norvegia, il 20 agosto dello stesso anno. I documenti furono firmati da Yasser Arafat per conto dell'Olp e dal ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres, alla presenza del premier Yitzhak Rabin e sotto l'egida del presidente americano Bill Clinton. Quell'intesa sollevò molte speranze, e fu seguita da altri negoziati che portarono nel 1995 agli accordi di Oslo2. Ma (quasi) tutto è rimasto solo sulla carta. Come è rimasta lettera morta la "Soluzione a due Stati", malgrado Usa ed Europa continuino a richiamarsi ad essa.

A certificare questa situazione anche il semplice fatto che non sono previste cerimonie ufficiali per l'anniversario, né in Israele né nelle aree palestinesi. A prevalere è piuttosto lo scetticismo. Sul quotidiano israeliano Haaretz, Uzi Baram, ex ministro laburista di quei tempi considerato molto vicino a Rabin, ha scritto chiaramente che quegli storici accordi sono diventati - a causa delle politiche successive - un "fallimento", sia per gli israeliani che per i palestinesi. Eppure quel momento storico è rimasto nella memoria collettiva con l'immagine di Rabin e Arafat insieme sul prato della Casa Bianca, accompagnati come garanti da Clinton, dal segretario di Stato Usa Warren Christopher e dal ministro degli Esteri russo, Andrei Kozyrev. E ancor di più la celebre istantanea della stretta di mano fra Arafat e Rabin, entrambi poi Nobel della Pace con Peres. Rabin pagò con la vita quel gesto, ucciso da lì a poco dall'estremista ebreo di destra Yigal Amir.

L'intesa - con il reciproco riconoscimento politico fra le parti - prevedeva il ritiro di Israele da aree della Striscia di Gaza e della Cisgiordania e il diritto palestinese all'autogoverno tramite la nascita dell'Autorità nazionale palestinese (Anp). Dagli accordi furono lasciati fuori - per essere affrontati dopo - i temi spinosi di Gerusalemme, dei rifugiati palestinesi, degli insediamenti israeliani, della sicurezza e dei confini. L'accordo - in vista di uno status finale - stabiliva intanto la suddivisione della Cisgiordania in tre zone: A, sotto pieno controllo dell'Anp; B, sotto controllo civile palestinese e israeliano per la sicurezza; C (a forte presenza di insediamenti ebraici), sotto pieno controllo israeliano.

Da allora la situazione è degenerata. E le posizioni non sembrano mai state così distanti come oggi. in Cisgiordania è sempre più flebile il controllo dell'Anp di Abu Mazen, scalzato da Hamas e dalle altre fazioni palestinesi armate, con la persistenza di attentati contro gli israeliani. In Israele, al governo ci sono forze e leader che hanno contrastato gli accordi, come il premier Benjamin Netanyahu, o che sono ad essi antitetiche. E che invocano - come il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich (Sionismo religioso) e quello della Sicurezza Itamar Ben-Gvir (Potenza ebraica) - l'espansione delle colonie.

Qualche speranza ora è riposta nella volontà Usa di arrivare all'avvio di relazioni diplomatiche tra Israele e Arabia Saudita: una porta dalla quale potrebbe passare nuova linfa per i contenuti degli accordi di 30 anni fa.

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