La democrazia può essere decisa per sorteggio?

di Matteo RizzolliAdriano Giuliani
Tirare a sorte è un metodo antichissimo, ma nell’età moderna è rimasto in vigore in casi molto limitati, come per la selezione dei giurati delle Corti Usa o per le nostre Corti d’assise. Ora se ne discute in Italia per la scelta dei membri del Csm
December 30, 2025
La democrazia può essere decisa per sorteggio?
L’avanzata dei populismi e il consolidarsi di assetti oligarchici in diversi Paesi – dagli Stati Uniti alla Russia, alla Cina – e, per converso, la paralisi decisionale mista al calo dell’affluenza in contesti come Francia, Unione Europea e Italia, sono segnali della stessa crisi della democrazia. Questi leader vengono spesso ammirati per il successo economico e decisionismo, mentre i rappresentanti democraticamente eletti sono sempre più detestati e accusati di immobilismo, elitarismo e distanza dai cittadini. Così nella percezione diffusa, la democrazia elettiva non appare più capace di selezionare decisori pubblici migliori rispetto a quanto riescono a fare altre forme di governo, dalle dittature alle plutocrazie. Di fronte a questa crisi, lo sguardo di molti studiosi si rivolge al sorteggio come a un possibile meccanismo alternativo di selezione dei decisori pubblici. Il sorteggio è un metodo antichissimo: sin dalla Grecia classica, e poi anche nella Venezia e nella Firenze tardo-medievali, è stato utilizzato per individuare cittadini chiamati a ricoprire cariche pubbliche e a prendere decisioni collettive.
Se l’impiego del sorteggio in ambito politico è sostanzialmente tramontato con l’età moderna, esso è però sopravvissuto in altri contesti: è ben noto, per esempio, l’uso del sorteggio per la selezione dei giurati nelle Corti americane; un meccanismo in parte analogo è previsto anche in Italia per le Corti d’assise. Di recente, inoltre, il tema è tornato al centro del dibattito con l’introduzione del sorteggio come criterio di selezione dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura nell’ambito della riforma della giustizia. Sempre in Italia, agli albori del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo sosteneva che i membri del Parlamento dovessero essere sorteggiati dalla popolazione generale. Quella di Grillo non era certo una voce isolata: in tempi recenti l’idea del sorteggio come meccanismo di selezione è tornata in gran voga.
Il ritorno contemporaneo del sorteggio è fondato sulla legittimità che esso conferisce al meccanismo di selezione dei decisori pubblici e che dipende, in larga misura, dal rispetto dei principi di trasparenza ed eguaglianza: due questioni su cui, agli occhi contemporanei, il sorteggio sembra offrire rassicurazioni più convincenti di quelle fornite dalla democrazia. Sul versante della trasparenza, l’assegnazione casuale delle cariche riduce lo spazio per corruzione e clientelismo, che invece possono insinuarsi nei processi elettivi. Sul versante dell’eguaglianza, il sorteggio garantisce per definizione a tutti le stesse probabilità di accedere alla carica pubblica. Non altrettanto accade nelle democrazie moderne, dove abilità personali, reti relazionali e, soprattutto, la disponibilità di risorse restringono di molto l’elettorato passivo, cioè il gruppo di chi può davvero candidarsi.
Al tempo stesso, l’applicazione del sorteggio alla rappresentanza politica in forma diretta – l’idea “grillina” di parlamentari estratti a sorte – si scontra con almeno due nodi strutturali. Il primo riguarda le competenze: il sorteggio, per definizione, non incorpora filtri ex ante e può quindi condurre alla scelta di persone del tutto impreparate a gestire questioni tecniche e complesse. Il secondo nodo riguarda il rapporto rappresentativo. Quando il bacino da cui si sorteggia è enorme, il legame tra rappresentante e rappresentati si indebolisce fino quasi a recidersi; e quel legame è uno dei canali attraverso cui il decisore viene, in qualche misura, responsabilizzato rispetto alle conseguenze delle proprie scelte. In assenza di un vincolo di mandato, di prospettive di rielezione, di controllo reputazionale o di disciplina organizzativa, l’estratto a sorte ha tutti gli incentivi a massimizzare opportunisticamente il proprio tornaconto (rendite, visibilità, scambi di favore).
Se il sorteggio diretto della rappresentanza politica non sembra avere un futuro realistico, altre applicazioni del sorteggio stanno invece prendendo piede e si stanno diffondendo. Negli ultimi decenni, numerosi Paesi hanno sperimentato processi deliberativi basati su assemblee di cittadini sorteggiati e quindi rappresentativi della popolazione (i cosiddetti minipublics). Questi organismi – che includono modelli ormai celebri come la Citizens’ Assembly on Electoral Reform nella provincia canadese della British Columbia, o la Citizens’ Assembly irlandese o la Convention Citoyenne pour le Climat in Francia – mirano a creare spazi deliberativi nei quali cittadini comuni possano valutare evidenze, ascoltare esperti e confrontarsi in modo strutturato per poi formulare raccomandazioni politiche da sottoporre ai governi o ai parlamenti. Secondo l’Ocse, tra il 2010 e il 2020 sono stati attivati decine di processi deliberativi di questo tipo, distribuiti a tutti i livelli di governo e che hanno affrontato questioni molto varie, dall’urbanistica alla sanità, dall’ambiente alle infrastrutture e altri ambiti di policy.
In tempi più recenti, una nuova applicazione del sorteggio sembra affacciarsi nello scenario politico: in Grecia, il Pasok ha previsto la selezione casuale di cittadini incaricati di esprimersi sul candidato sindaco proposto dal partito. In Messico, il partito Morena, sotto la guida di Manuel López Obrador, ha introdotto il sorteggio per il trenta per cento delle candidature. Infine, nel Regno Unito, in queste settimane, Jeremy Corbyn, ex leader laburista, ha fondato un nuovo partito, Your Party, che pone il sorteggio al centro della propria organizzazione, rendendolo un elemento distintivo. Si noti la differenza: in tutti e tre i casi non si tratta di sorteggiare direttamente il rappresentante nell’assemblea politica, ma piuttosto il membro del partito che rappresenterà lo stesso partito alle elezioni democratiche. Questo uso misto di sorteggio per decidere chi, nel partito, si candida ed elezione democratica per decidere quale candidato vince le elezioni potenzialmente combina gli aspetti positivi di entrambi i sistemi. Sotto il profilo delle competenze, anche se i partiti non assicurano di certo candidati pienamente competenti, essi introducono almeno alcuni dispositivi di selezione e socializzazione: percorsi interni, verifiche reputazionali, forme di apprendistato politico, supporto organizzativo e programmatico, oltre a meccanismi di responsabilità verso un’organizzazione che può premiare o sanzionare comportamenti e risultati. La responsabilità sarebbe inoltre preservata dalla fase successiva: gli elettori, infatti, continuerebbero a giudicare e selezionare il decisore pubblico attraverso la competizione elettorale, premiando o sanzionando la sua proposta politica.
Il sorteggio introdurrebbe poi un elemento di trasparenza, poiché ridurrebbe il peso delle dinamiche interne dei partiti, come il ruolo delle correnti, delle reti personali o delle risorse economiche nella selezione dei candidati. Allo stesso tempo, amplierebbe l’uguaglianza delle opportunità di accesso alle cariche: tutti i membri che rispettano i criteri di idoneità avrebbero, in linea di principio, la stessa possibilità di essere selezionati, indipendentemente da visibilità, potere interno o disponibilità finanziarie. L’apertura del meccanismo di selezione potrebbe stimolare un maggior coinvolgimento della base e contribuire quindi, almeno in parte, alla rivitalizzazione del processo democratico interno ed esterno ai partiti. Resta tuttavia da capire come tali sperimentazioni evolveranno, se riusciranno a imporsi in un panorama politico ancorato a metodi più tradizionali e se si dimostreranno davvero all’altezza delle aspettative. La posta in gioco – rivitalizzare la democrazia – merita di esplorare tutte le buone idee in circolazione.

Università Lumsa

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