Il confronto necessario per chi è al potere
Dove chi governa sfugge il confronto e si presenta come necessità indiscutibile, anche se legittimato dal consenso popolare, la dominazione ricompare

Essere liberi significa poter stare su un piano di parità con gli altri, come cittadini tra cittadini, poter camminare a testa alta, vivere senza vergogna e guardarsi negli occhi senza alcun motivo di paura o deferenza. In questo senso una società veramente democratica, afferma Philip Pettit nel suo On the People’s Terms, non è quella società dove le istituzioni governano con il consenso degli elettori. Questa condizione è necessaria ma non sufficiente. Occorre, infatti, che si rispetti anche una seconda condizione, quella di “non-subiezione” - dice Pettit - che il potere, cioè, non possa esercitare un dominio arbitrario sui singoli cittadini. La libertà non coincide con l’assenza di interferenze, bensì con l’assenza di interferenze arbitrarie, la protezione dal capriccio di chi governa, anche quando quel capriccio è benevolo. La giustizia, in questa prospettiva, non si misura dalle intenzioni dei governanti, ma da quanto il loro potere sia controllabile, contestabile, obbligato a rendere conto.
Il ricorso sistematico alla decretazione d’urgenza, frequentemente criticata dallo stesso Presidente della Repubblica, la compressione del dibattito parlamentare – la mancata discussione intorno al disegno di Legge di Bilancio, di questi giorni rappresenta solo l’ultimo esempio, l’uso reiterato del voto di fiducia, non sono semplici tecnicalità procedurali. Sono segnali di una trasformazione più profonda. Il potere tende a presentarsi come necessità, come urgenza, come atto dovuto. Ma un potere che non può essere messo in discussione è, per definizione, un potere dominante. La questione non riguarda solo l’azione legislativa, ma anche il modo in cui vengono gestiti le dinamiche e i conflitti sociali. Il caso del centro Askatasuna di Torino è istruttivo non tanto per il merito delle posizioni in campo, quanto per la cornice adottata. Una questione complessa, che intreccia legalità e marginalità, uso degli spazi urbani e conflitto politico, è stata ridotta, con il pretesto della sicurezza pubblica, a una decisione urgente, tranchant, da assumere in fretta, senza un vero confronto pubblico e plurale. Quando il conflitto viene trattato come un fastidio da rimuovere anziché come una realtà da governare, il potere smette di giustificarsi e comincia semplicemente a imporsi. Lo stesso schema emerge nella gestione del dissenso negli spazi universitari. Le proteste studentesche, al di là delle forme e dei contenuti, hanno posto domande politiche legittime. E in più occasioni, purtroppo, la risposta non è stata un confronto nel merito, ma una delegittimazione simbolica del diritto sacrosanto a chiedere conto, magari anche alzando la voce per farsi ascoltare. E quando a studenti che domandano spiegazioni le istituzioni rispondono con fastidio o sarcasmo, il messaggio che passa è chiaro: non dovete capire, non ci interessano le vostre ragioni, dovete accettare. Ma in una vera democrazia le domande non sono un intralcio all’azione di governo ma, ci ricorda ancora Pettit, una delle condizioni della sua legittimità.
Questa difficoltà nel tollerare il confronto emerge anche nello stile comunicativo. La scelta ricorrente del Presidente del Consiglio di evitare le conferenze stampa e il confronto diretto con i giornalisti non è solo una questione di stile, è sostanza. Perché in una prospettiva repubblicana, il dialogo con la stampa rappresenta uno dei principali strumenti di controllo discorsivo del potere. Così come una teoria è scientifica non quando è verificabile, ma quando è falsificabile, così non è il consenso popolare a fondare la legittimità del potere, se non ne è garantita la sua contestabilità permanente. Il Parlamento, la stampa, la magistratura, i corpi intermedi, le università, la società civile non sono ostacoli all’azione di governo, bensì dispositivi di controllo discorsivo; luoghi in cui il potere deve fermarsi, rispondere, rendere conto. Quando questa azione viene vissuta con fastidio e questi spazi vengono negati in nome dell’urgenza, della semplificazione o della governabilità, la democrazia diventa fragile. Dove il potere accetta di essere interrogato, contestato e perfino rallentato, la libertà cresce. Dove sfugge il confronto e si presenta come necessità indiscutibile, anche se legittimato dal consenso popolare, allora la dominazione ricompare. È su questo confine labile che oggi si gioca il futuro delle nostre comunità e dello spirito democratico.
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