domenica 10 novembre 2013
​Il 12 novembre 2003 un’autobotte carica di carburante ed esplosivo faceva strage dei nostri connazionali in Iraq. Oltre a 9 morti iracheni nell’attentato alla base italiana vengono uccisi 12 carabinieri, 5 militari e 2 civili. Nelle parole di chi ha visto la propria famiglia spezzarsi, la certezza che quel sacrificio non è stato inutile.
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​Un anniversario «che incombeva e ora è arrivato», tragico e straziante. Non atteso, temuto. Per mamme, papà, mogli, figli, nei dieci anni trascorsi dalla strage di Nasiriyah il dolore è stato una realtà con cui fare i conti tutti i giorni nessuno escluso, ma le date hanno il potere di acuirlo «e questo decennale è terribile, non credevo...». Nei racconti di tutti, immancabilmente due ricordi: l’ultima telefonata ricevuta dai ragazzi e l’istante in cui hanno saputo di quel camion bomba esploso il 12 novembre 2003 a Nasiriyah, proprio dove gli italiani erano in missione di pace. «Quando è morto eravamo sposati da 5 anni ma ci conoscevamo da quando ragazzini frequentavamo lo stesso oratorio – racconta Monica Cabiddu, oggi 42 anni, moglie dell’appuntato dei Carabinieri Andrea Filippa –. La mattina stessa mi aveva mandato un sms che ancora conservo. La sera prima, fatalità, mi aveva chiamato, ma sa come sono grandi le borse di noi donne, non avevo trovato il cellulare in tempo e ho perso la chiamata». L’ultima. Il 12 mattina Andrea era di postazione all’ingresso della caserma, è stato lui a sparare contro i due kamikaze alla guida della cisterna imbottita di tritolo, che infatti è esplosa prima di entrare nella palazzina, altrimenti invece di diciannove italiani morti ne avremmo pianti a centinaia. Torinese, Andrea Filippa apparteneva al XIII Battaglione di Gorizia, quello specializzato in missioni di pace, «ma mai mi ero preoccupata le altre volte, nemmeno quando l’11 settembre del 2001, il giorno delle due Torri Gemelle, si trovava in Eritrea – racconta la moglie –. Questa volta però avevo paura». Filippa era appena arrivato a Nasiriyah, iniziava il suo turno di quattro mesi, «una beffa, ma non maledico nulla, penso che tutto ciò che accade sia necessario. Se ne è valsa la pena? Oggi in quelle zone ogni giorno avvengono attentati, ma per le persone che Andrea ha salvato sì, ne è valsa la pena».

«Ero in classe quando una mia compagna ha ricevuto sul cellulare la notizia della bomba a Nasiriyah, dove stava mio padre. Sono corso a casa, l’ho trovata piena di Carabinieri e sono svenuto... Poi però non ho avuto il tempo di arrendermi, mia madre e mia sorella stavano male e io dopo un breve periodo di anoressia ho dovuto trovare la forza». Marco Intravaia, figlio del vicebrigadiere Domenico, aveva 16 anni quando la sua vita è improvvisamente cambiata: «Ancora due giorni e mio padre sarebbe tornato a casa, in Sicilia». Anche lui, come gli altri militari, da tempo era preoccupato, «la sera prima papà ha chiamato, io e mia sorella Alessia, che aveva 10 anni, dormivamo già, ma quella notte per la prima volta ha chiesto a mia madre di svegliarci, voleva parlarci: ci ha detto solo che ci voleva bene e che ci avrebbe riabbracciati presto». Oggi Marco, a 26 anni, è il più giovane Cavaliere della Repubblica, onorificenza ricevuta dal presidente Napolitano «perché da quel giorno ho iniziato a girare per le scuole di tutta Italia a testimoniare ai ragazzi come me che cosa significa essere orfano di un servitore dello Stato, militare non di forze d’occupazione ma operatore di pace». La più bella dimostrazione sta tutta in un episodio: «Un mese dopo la strage un bimbo iracheno ferito nell’esplosione fu ricoverato a Palermo e i familiari dei sei siciliani morti a Nasiriyah lo andarono a trovare. Il padre di quel bambino prima temeva un po’ la nostra reazione, poi si sciolse e ci chiese le foto dei nostri cari. Anni dopo in una mostra a Roma vidi una foto scattata nella casa irachena di quell’uomo: dietro di lui sul mobile, accanto al Corano, c’erano le sei foto dei nostri caduti, come fossero di famiglia».

Anche Emanuele Ferraro, 28 anni, era siciliano, ma caporalmaggiore scelto al VI Reggimento trasporti di Budrio (Bologna), alla sua ottava missione di pace. «Pensi che la sera prima mi aveva mandato un sms per ricordarmi di pagargli il bollo dell’auto», piange la madre Maria, che quando gira per Lentini ingoia lacrime e dolore, «ma quando sono in casa sbatto la testa contro il muro per un’ingiustizia che non ha perché», quella di un figlio massacrato mentre faceva del bene, come le hanno raccontato in tanti, ad esempio chi era in Albania con lui e lo ricorda mentre prende una pala meccanica e scava un campo di calcio per i bambini... «La sua stanza è come l’ha lasciata, la mimetica ha il suo odore e me la abbraccio. Prego, prego tanto ma lui non lo sento... il sacerdote dice che è per la rabbia che ho dentro». Anche perché il suo bellissimo Emanuele è morto ucciso da fuoco amico, proiettili italiani sparati all’impazzata dalla riserva di munizioni esplosa. Quello che è certo è che anche lui con Andrea Filippa ha ucciso i kamikaze e salvato i militari italiani nella Maestrale, «eppure nemmeno nel decennale l’Italia ha dato ai nostri ragazzi la medaglia d’oro e sa perché? Perché non erano in guerra ma in missione di pace. Che vergogna».

«Non preoccupatevi per me, mi hanno messo un ragazzone accanto come capo scorta sempre pronto a proteggermi...». Lo raccontava alla sorella la sera prima di morire Marco Beci, 43 anni, cooperante internazionale, una delle due vittime civili. «Dei nostri tre bambini, Ludovica aveva solo un anno – commenta dalle Marche sua moglie Carla –. L’Africa era il suo vero amore, ci eravamo conosciuti in un gruppo parrocchiale, poi ci sposammo e tre giorni dopo era già a Nairobi, in Kenya, dove l’ho raggiunto. È stato a lungo anche a Zagabria durante la guerra dei Balcani e in Etiopia per progetti di solidarietà dell’Onu, e anche a Nasiriyah era stato inviato a preparare la base logistica per i progetti di ricostruzione che dovevano partire nel 2004». Forse perché non viveva le tensioni dei militari nelle caserme, Beci non percepiva pericoli imminenti, anzi, «la sera prima quante risate ci siamo fatti al telefono», continua Carla, «lui che aveva fatto il servizio civile si prendeva in giro, "guarda se alla mia età devo vivere in tenda, con i bagni alla turca, nel campo militare degli americani!"». Con l’ultimo abbraccio le aveva raccomandato i figli, «guarda che nella vita facciano sempre il bene e abbiano il meglio», e così Carla ha fatto, andando a lavorare e dedicando a loro ogni giorno di questi dieci anni. «Al di là delle celebrazioni, il Marco vero è quello che era con noi a casa, e per noi il suo ricordo è affrontare la vita come faceva lui, che voleva bene a tutti». A Pergola, nel suo paese, oggi vive il suo autista eritreo, che Beci salvò dal campo di concentramento etiope e mise su un aereo mandandolo a sua moglie. Oggi è cittadino italiano.

«Lui era la mamma di casa, io il papà severo», sorride Paola, moglie del sottotenente dei Carabinieri Enzo Fregosi, in Iraq addetto ai beni archeologici e alla sanità. La cosa più difficile per lei è stata dire ai figli che quel padre cui erano legatissimi non sarebbe più tornato. E poi resistere senza di lui, «perché dal 2003 ho solo dieci anni di più ma lo stesso desiderio inappagato di invecchiare insieme». Prima di ripartire per l’Italia era riuscito nella sua ultima impresa, dotare il Pediatrico di Nasiriyah di un’incubatrice fatta arrivare dall’Italia: Enzo da dieci anni non c’è più, ma ancora oggi molti bambini vivono solo grazie a lui. E questo è bello anche se non lo sapranno mai.

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