lunedì 29 agosto 2011
Puerto Palomas, nel Nord, è una cittadina nel cuore del conflitto tra forze governative e bande criminali che controllano il traffico della droga. Le stragi di civili servono per creare terrore. Chi può scappa, e i bambini, assistiti da religiosi e Ong, diventano gli unici abitanti. Ma anche molti adolescenti sono ormai coinvolti nel conflitto.
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«Caro Gesù, fa che smettano di sparare. E, se puoi, dacci un po’ di cibo in più che non ne abbiamo». Juan (il nome è di fantasia) affida la sua preghiera al quaderno che gli ha regalato padre Antonio. Il sacerdote ha chiesto ai bambini della parrocchia di Nostra Signora di Guadalupe di Palomas, nello Stato di Chihuahua, di scrivere e disegnare su un blocco i loro pensieri, paure, desideri. Subito i piccoli hanno afferrato carta e penna e si sono messi all’opera: hanno ritratto pistole, cadaveri, strade vuote. La realtà in cui vivono, appunto. Il Nord del Messico è ormai zona di guerra, anzi di “narco-guerra”. Il massacro di giovedì al Casinò di Monterrey, in cui hanno perso la vita 52 persone, è solo l’ultimo di una lista infinita. Da quando, nel 2006, è cominciata l’offensiva del presidente Calderón contro i “signori della droga” e questi hanno reagito con una furia inaspettata, la violenza ha travolto il Paese. Trasformandolo in una nazione di vittime – oltre 43mila – e orfani. I piccoli che hanno perso i genitori nella narcoguerra sono almeno 12mila, dice la Commissione messicana per i diritti umani. Secondo le Ong sarebbero oltre il doppio: 30mila, di cui quasi la metà nel solo Stato di Chihuahua. Una “generación perdida” e marchiata a fuoco da una guerra che ufficialmente non esiste.Come il piccolo Juan. Che, nel quaderno di padre Antonio, accanto alle immagini dei morti, ha scritto ossessivamente una sfilza di «basta». Non ha altro modo per dirlo. Perché nella sua città, Puerto Palomas, a una sessantina di chilometri da Ciudad Juarez, nel Nord del Messico, l’unica legge inviolabile è quella del silenzio. «È la prima cosa che avverti quando arrivi – spiega ad Avvenire Victoria Tester, volontaria statunitense dell’associazione La Luz de la Esperanza Outreach –: l’assenza di rumore ha un suono agghiacciante. La strade sono deserte, la maggior parte delle case vuote. E anche quelle abitate hanno le persiane chiuse: la gente si rende invisibile perché ha paura. Di che cosa? Dei narcos». Palomas è lo specchio perfetto del Messico “ai tempi della narco-guerra”. Una “città di orfani”: i tre quarti dei 3mila abitanti rimasti sono bimbi, a cui la violenza ha strappato uno o entrambi i genitori. Situata proprio sull’autostrada che da Juarez conduce agli Usa, Palomas è punto nevralgico del conflitto. Le bande rivali di Sinaloa e Juarez se la contendono per garantirsi un prezioso corridoio attraverso cui far filtrare la cocaina nel lucroso mercato statunitense. Le stragi intenzionali di civili sono un’arma comune per terrorizzare la popolazione e ”far terra bruciata” al nemico. Ecco perché chi può scappa: cinque anni fa, la cittadina contava 12.500 abitanti. L’anno scorso ne rimanevano 5mila. Ora ce ne sono a malapena 3mila e l’esodo continua. «Uomini non ce ne sono quasi più: chi non è morto è andato a lavorare altrove, dato che la violenza ha paralizzato l’economia – continua Victoria –. Qui restano solo anziani e bambini». I campi di cipolle rosse e peperoncino – principale risorsa della zona – sono quasi tutti abbandonati. Persi i mariti, le donne da sole non riescono a mandarli avanti e così, affidano i piccoli a un parente o un’amica, e partono nella speranza di poterli mantenere almeno a distanza. «Ogni giorno qualcuno se ne va. E il numero dei bimbi soli cresce. Per fortuna la solidarietà tra chi resta è molto forte: ho visto una famiglia dare l’unico uovo sodo ai figli dei vicini senza più genitori», dice Victoria. La donna vive dall’altro lato del confine, nella gemella Usa Columbus. Nel dicembre 2009, ha risposto a una richiesta di aiuto di Esperanza Lozoya, fondatrice di La Luz: il sindaco di Palomas era stato appena assassinato, la violenza dilagava e nessuno voleva correre il rischio di avventurarsi nella città per portarvi i pacchi di cibo che l’associazione raccoglieva oltreconfine per distribuirle agli orfani. Victoria si è offerta di fare da “corriere” e da allora fa su e giù lungo la frontiera. «Lo so, è pericoloso. Spesso, per la strada mi imbatto in corpi smembrati. Però da quei pacchi dipende la sopravvivenza di oltre 2mila bimbi». Che non rischiano solo di morire di fame. Fino a qualche tempo fa, i piccoli erano intoccabili anche per i criminali. Ora, nemmeno più questo: massacrare i bimbi è parte della strategia dei narcos per terrorizzare la popolazione. Secondo i dati del governo, solo nel 2009 – ultimo anno per cui sono disponibili cifre – sono stati ammazzati 1.180 adolescenti. Spesso, inoltre, le gang reclutano i minori come “manodopera” criminale a basso costo: si parla di almeno 30mila baby-narcos. I più giovani hanno appena 10 anni e, in genere, hanno già alle spalle diversi omicidi. Perché ormai nella narcoguerra messicana la distinzione tra carnefice e vittima è sempre più sfumata.
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