mercoledì 6 aprile 2016
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Nella macabra storia internazionale della “morte di Stato”, il 2015 può essere definito l’«anno del paradosso». Da una parte, le 1.634 esecuzioni rappresentano un record: un numero tanto elevato non si era mai raggiunto nell’era post-Guerra fredda. Per trovare cifre simili, si deve ritornare indietro di 27 anni, cioè al 1989. Dall’altra, però, dallo scorso anno, il fronte abolizionista include ormai la maggior parte – più della metà – delle nazioni del pianeta: ben 102. Tale passo avanti si deve alla scelta da parte di quattro Paesi – Madagascar, Figi, Suriname e Repubblica democratica del Congo – di mettere al bando il boia. Tra tali estremi oscilla l’ultimo rapporto di Amnesty International sulla pena capitale nel mondo. Il documento offre un ritratto in chiaro-scuro del panorama internazionale. In cui «abbiamo assistito a sviluppi inquietanti ma anche a passi avanti che ci hanno dato speranza», afferma Salil Shetty, segretario generale dell’Ong. «Nonostante i passi indietro di corto periodo del 2015 – aggiunge – la tendenza resta chiara: il mondo si sta liberando dalla pena di morte. I Paesi che ancora eseguono condanne capitali devono rendersi conto di essere dal lato sbagliato della storia». Su tale crinale si collocano Iran, Pakistan e Arabia Saudita, responsabili dell’89 per cento delle esecuzioni registrate da Amnesty. Il dato non include la Cina, in cui queste ultime – di sicuro migliaia – sono coperte dal segreto di Stato. A preoccupare gli attivisti, sono soprattutto Riad e Teheran, in cui il numero dei prigionieri messi a morte – rispettivamente 158 e 977 – è cresciuto del 76 e 31 per cento. Islamabad, dall’interruzione della moratoria nel dicembre 2014, ha fatto un impiego “spasmodico” della pena capitale. In un anno, ha ucciso “legalmente” 326 detenuti. Mentre in un primo momento, il boia era riservato ai colpevoli di terrorismo, dallo scorso febbraio, la pena è stata inflitta anche per le altre categorie di crimini. Almeno cinque dei prigionieri messi a morte erano minorenni all’epoca del reato. Un elemento, quest’ultimo davvero inquietante poiché rappresenta una palese violazione del diritto internazionale, in primis la Convenzione sui diritti dell’infanzia. Oltre che della Costituzione pachistana. Anche l’Iran ha impiccato quattro under 18 al momento del delitto. Non solo: sono presenti ragazzini nei bracci della morte di Arabia Saudita, Indonesia, Iran, Nigeria e Papua Nuova Guinea. Disabili, fisici e mentali, inoltre, sono stati condannati o uccisi in numerosi Stati, tra cui Giappone, Indonesia, Usa e ancora Pakistan. Spesso, poi – sottolinea Amnesty – le sentenze capitali sono stati emesse dopo procedimenti giudiziari poco trasparenti, quantomeno «non in linea con gli standard internazionali sul giusto processo». Ci sono, nello specifico, numerosi esempi di confessioni estorte con la tortura e i maltrattamenti. Altro esempio di violazione delle norme internazionali è l’impiego sistematico del boia per crimini che non implicano l’omicidio volontario e pertanto non raggiungono la soglia dei “reati più gravi” come prescritto dall’articolo 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici. In aggiunta, numerosi Paesi emettono sentenze capitali per reati di droga, corruzione, rapina a mano armata, perfino adulterio – Arabia Saudita e Maldive –, apostasia – sempre Riad – o blasfemia, Pakistan. Un significativo aumento delle esecuzioni è stato rilevato pure in Egitto e in Somalia, con 22 e 25 esecuzioni rispetto alle 15 e 14 dell’anno precedente. Numeri, comunque, distanti dai livelli sauditi e iraniani ma indicativi di una preoccupante tendenza. © RIPRODUZIONE RISERVATA L’Ong mette in luce l’aumento del ricorso al boia dal 1989: Arabia Saudita, Pakistan e Iran sono responsabili dell’89% delle esecuzioni mondiali Però più della metà dei Paesi sono abolizionisti
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