domenica 22 febbraio 2009
Un popolo stretto tra violenze in patria e rifiuto dell’India di accogliere gli esuli. Povertà, mancanza di assistenza governativa e crisi alimentare ne minano la sopravvivenza «Un soldato mi ha rotto una costola con un calcio. Mentre gli uomini dei servizi segreti si accanivano contro di me, continuavano a ripetere: i Chin devono essere cancellati dall’intero Myanmar»
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La visita di sei giorni del Relato­re speciale Onu sulla situazio­ne dei Diritti umani in Myan­mar, Tomás Ojea Quintana, che si è conclusa giovedì, ha evidenziato an­cora una volta l’impotenza del mon­do davanti agli abusi nel Paese asia­tico, ma anche di fare da cassa di ri­sonanza per la condizione dei pri­gionieri politici, dell’opposizione democratica, delle minoranze che non accettano il predominio di un regime brutale. «Per troppo tem­po gruppi etnici come i Chin han­no sostenuto il peso dell’op­pressivo regime militare del Myanmar. È tempo che cessi questo tratta­mento brutale e che l’esercito sia ritenuto respon­sabili di queste a­zioni. Inoltre, l’India dovrebbe muo­versi per proteggere quanti cercano disperatamente un rifugio entro i suoi confini » . Le parole di Elaine Pearson, vicedirettore per l’Asia di Human Rights Watch, sintetizzano il dramma di un’etnia che si trova oggi a vivere « senza sicurezza in Myanmar e senza protezione in In­dia ». Delle 135 minoranze che formano il mosaico birmano – sottoposte a repressione dal regime che in esse ha sempre visto una minaccia più che le necessarie componenti di u­na nazione per origine e vocazione multietnica, seppure dominata dal 60% di etnia birmana – quella dei Chin è all’estero tra le meno cono­sciute. Oggi sono pochissime le a­genzie umanitarie presenti tra i Chin e le loro attività devono adeguarsi alle restrizioni imposte dal regime, contenute nelle «Linee guida per le agenzie Onu, le Organizzazioni in­ternazionali e le Ong» del febbraio 2006. Indicazioni e imposizioni che hanno costretto molte organizza­zioni ad abbandonare il loro lavoro proprio in un momento in cui la po­vertà endemica, la mancanza di as­sistenza governativa e la crisi ali­mentare in corso, rendono precaria la stessa sopravvivenza di questa et­nia. N.C. è stato arrestato molte volte per la sua attività considerata insurre­zionale dalle autorità. L’ultima vol­ta nel 2000, prima della fuga all’e­stero. Ecco la sua testimonianza: «O­gni volta mi torturavano nello stes­so modo, finché un soldato non mi ruppe una costola con un calcio. Mentre gli uomini dei servizi segre­ti si accanivano contro di me, con­tinuavano a ripetere: ’I Chin devo­no essere cancellati dall’intero Myanmar’». Un rapporto pubblicato recente­mente da Human Rights Watch ( Hrw) e una conferenza stampa convocata per l’occasione nella ca­pitale thailandese Bangkok, contri­buiscono a mettere in luce caratte­ristiche e soprattutto lo stato di op­pressione a cui è sottoposta questa minoranza, al 90 per cento cristia­na, evangelizzata dai missionari bat­tisti americani. Una popolazione che da secoli vive nelle impervie re­gioni collinari del Myanmar nor­doccidentale a confronto con una natura ostile, è sottoposta oggi a la­voro forzato, tortura, esecuzioni ex­tragiudiziarie e discriminazione re­ligiosa. La loro condizione, poco documen­t­ata, esprime il doppio dramma del sottosviluppo e della persecuzione. Il Rapporto Hrw ha al centro 140 e­sperienze, diverse ma ugualmente significative, tutte anonime per sal­vaguardare l’incolumità degli inter­vistati, raccolte tra il 2005 e il 2008 con lo scopo di gettare luce sulla sor­te dei Chin che, insieme ai più co­nosciuti Karen, Karenni e Shan, re­stano fra i pochi gruppi a sostenere con l’insurrezione armata il proprio diritto all’identità e alla sopravvi­venza. Pagando un pesante tributo. Ad accentuarne la loro condizione di arretratezza e a favorirne l’oblio è la collocazione geografica: al con­fine nordoccidentale, oltre il quale si trova lo stato indiano del Mizoram, a sua volta toccato da guerriglia et­nica, insurrezione maoista e un pe­sante stato di arretratezza. Soprat­tutto, con poca o nessuna intenzio­ne di favorire un’immigrazione di­sperata e con possibilità di rientro In alto e a fianco, profughi dell’etnia Chin in un campo di raccolta della Malesia. L’emigrazione all’estero rappresenta spesso l’unica via di fuga dalle discriminazioni volontario pressoché nulle. «Nel mio villaggio è rimasta una ses­santina di famiglie, tutte le altre so­no fuggite. Un tempo erano circa 400, ma oggi nessuno può viverci per la presenza dell’esercito – rac­conta una donna chin della muni­cipalità di Matupi –. Non ci sono più giovani e la gente è così povera che nessuno riesce più ad avere un pa­sto decente, in pratica ci nutriamo di pappa di cereali annacquata». Im­possibile restare, difficile andarse­ne dalla fortezza-Myanmar. Dei circa 600mila individui che for­mano l’etnia, 100mila sono riusciti tuttavia ad attraversare sotto la spin­ta di periodiche campagne dell’e­sercito contro il Chin National Front, a passare la frontiera con l’India e a trovarvi un rifugio precario, guar­dati con ostilità, sottoposti ad abu­si e sotto la costante minaccia di rimpatrio forzato. Altri 30mila sono rifugiati in Malaysia e solo 500 con­dividono con i connazionali in fuga la relativa tranquillità dei campi pro­fughi thailandesi, dove si trovano 145mila birmani delle minoranze, nucleo di due milio­ni di emigranti spes­so senza documen­ti né tutele che ser­vono da manova­lanza in Thailandia. Quella Chin è una popolazione allo stremo, sovente pre­sa tra due fuochi. Lo stesso Fronte nazio­nale Chin, espressione armata del­la ribellione verso il governo cen­trale birmano, è accusato di tenere in ostaggio la popolazione civile at­traverso atti che inevitabilmente la espongono a rappresaglie. Anche per questo Human Rights Watch ha chiesto ad esso, come all’esercito birmano di mettere fine agli abusi e a chiesto all’India di offrire prote­zione ai fuggiaschi concedendo lo­ro di incontrare i rappresentanti dell’Agenzia Onu per i rifugiati. È sempre più urgente, infatti che a questa popolazione la comunità in­ternazionale garantisca una qual­che forma di protezione perché, co­me ricorda Amy Alexander, consu­lente di Hrw, «i Chin sottoposti al rimpatrio coatto corrono il rischio di essere incarcerati, torturati e messi a morte».
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