sabato 1 dicembre 2012
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Il timbro era già pronto da un pezzo, il francobollo anche. Sopra la scrit­ta «Stato di Palestina» in arabo e in­glese volteggia l’Uccello del sole, volati­le raro in Medio Oriente ma ben noto in Israele, e molti turisti stranieri se lo fan­no stampigliare sul passaporto. I pale­stinesi però evitano di apporlo sui pro­pri documenti: troppe noie ai posti di blocco e forse la segreta consapevolez­za che un simbolo non fa uno Stato. E nemmeno un riconoscimento formale, come quello della trionfale notte del 29 novembre a New York. Perché la domanda che tutti si fanno, da Gerusalemme (dove il voto all’Onu è sta­to seguito con assai tiepida partecipa­zione da parte palestinese) a Ramallah (dove invece garrivano le bandiere di Fa­tah) a Gaza (dove il silenzio ufficiale ha avvolto la storica votazione) è una sola: che Stato potrà mai diventare questa Pa­lestina formalmente riconosciuta dopo 65 anni dalle Nazioni Unite grazie al suc­cesso diplomatico di Mahmud Abbas, meglio noto come Abu Mazen?
Chi e co­me potrà governare questa terra di san­gue e di discordie, sparigliata in due en­tità, l’enclave sovrappopolata della Stri­scia di Gaza da una parte e la Cisgiorda­nia vaiolata da decine di insediamenti i­sraeliani (l’ultimo è stato annunciato po­che ore fa come prima retaliation dal go­verno Netanyahu) dall’altra? E soprat­tutto, chi davvero ha titolo per rappre­sentare lo Stato palestinese: il delfino di Arafat Abu Mazen, il premier di Gaza I­smail Haniyeh, il leader in esilio di Ha­mas Khaled Meshaal? La galassia palestinese, come sappiamo, ha molti volti. In Cisgiordania domina Fatah, il partito di Abu Mazen e prima di Arafat. Partito vecchio, indebolito e ab­bondantemente corrotto, tanto da aver perduto malamente le elezioni del 2006 a favore di Hamas e molto riluttante a in­dirne di nuove, e tuttavia responsabile del relativo benessere che si respira a Ra­mallah e dintorni. Eppure è stato pro­prio Abu Mazen, messo in mora e umi­liato ripetutamente sia da Israele sia dai confratelli di Hamas, ad aver trovato il ri­scatto internazionale con la mossa vin­cente del voto al Palazzo di Vetro.
Un ri­sultato poco più che simbolico, ma che ha ridato linfa a un movimento este­nuato e per molto tempo fuori dai gio­chi. Tra breve Abu Mazen andrà in visi­ta a a Gaza. Manca da quando Hamas ha estromesso Fatah impossessandosi del­la Striscia, e la sua non sarà una visita tranquilla. A Gaza, peraltro, non cade foglia che Ha­mas non voglia. Non per nulla ieri nella Striscia non si è pubblicamente festeg­giato il riconoscimento della Palestina: Haniyeh, l’uomo forte di Gaza e princi­pale referente di Teheran e il suo vice, l’irriducibile Mahmoud Zahar, si riten­gono già premiati dall’esito della secon­da breve guerra delle scorse settimane, che ha dato visibilità, ruolo e voce al mo­vimento, grazie soprattutto al ruolo di garanzia giocato dall’Egitto di Morsi. Ma se Haniyeh non brinda (non lo farebbe comunque, la sharia impone solo be­vande analcoliche nella Striscia), nem­meno Meshaal gioisce: lui risponde di­rettamente ai sunniti di Doha, a quel Qa­tar che ha promesso investimenti a piog­gia, autostrade, nuove città dentro la Stri­scia e che senza troppo nascondere la mano trama per cambiare le tessere del­la scacchiera mediorientale, facendo ca­dere i regimi siriano e giordano, gli a­lauiti e gli hashemiti.
Alla sinistra di Hamas si muove tuttavia un arcipelago di sigle salafite, di cui il Jihad Palestinese è la più vistosa e insie­me la più pericolosa. Piccole e agguer­rite formazioni che non cessano di ac­cusare Hamas «di imborghesimento, di intelligenza con il nemico» e in definiti­va di essere un movimento «troppo po­co islamico». In comune con Hamas queste frange radicali rifiutano di ac­cettare l’esistenza di Israele, contestano il dialogo perseguito con alterne fortu­ne dall’Anp e non riconoscono l’Olp co­me rappresentante del popolo palesti­nese. Allo stato delle cose è difficile im­maginare chi e come potrà governare u­na simile Babele.
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