sabato 16 luglio 2016
Tunisino, 31 anni, abitava a Nice Nord. Divorziato da poco, viene descritto come un uomo depresso e sgarbato. Non era religioso e non pregava. (Giorgio Ferrari)
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L'insolente normalità di un fondamentalista
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Gli uomini della morgue raccolgono gli ultimi cadaveri rimasti sulla Promenade. Hanno dovuto aspettare fino al primo pomeriggio per rimuoverli tutti, in attesa che la Scientifica li esaminasse. Ma il poliziotto che giustamente mi sbarra il passo è muto dal dolore. Sta piangendo, lo so. Il sole caldo, il vento dolce di un’estate ancora mite sono uno schiaffo insopportabile di fronte alla morte ingiusta di tanti innocenti. Per questo la mente si rifiuta. Si rifiuta di credere a ciò che è accaduto. Anche perché, mentre raccogliamo le tessere sparse di questa notte di follia omicida, ogni singolo frammento di questa vicenda ci appare appartenere a una sua insolente normalità, a cominciare da quella agenzia di autonoleggio a Saint-Laurent du Var, dieci chilometri da Nizza, da cui prendiamo le mosse per seguire – con l’orrore nel cuore – la tragica cavalcata di Mohamed Lahouaiej Bouhlel. Un uomo qualunque, un uomo senza qualità, questo tunisino di 31 anni, nato a Msaken nel governatorato di Sousse (il luogo della strage sulla spiaggia) e sposato con una connazionale naturalizzata francese. Uomo taciturno e violento insieme, precedenti penali per rissa, un uomo che si porta dietro finte granate e una pistola vera nella sua folle corsa omicida. A Saint Laurent aveva noleggiato pochi giorni prima un camion- frigorifero, un mostro bianco d’acciaio da dieci tonnellate che ora giace abbandonato e bucherellato dai proiettili della polizia fra i bagni Hi Beach e i Neptune Plage, il parabrezza ridotto a una costellazione di fori. «Devo consegnare i gelati», aveva detto agli agenti per superare la barriera che impediva il traffico pesante durante i fuochi artificiali del 14 luglio. La patente per guidare i camion l’aveva ottenuta non molto tempo prima. Banale come il male che si mimetizza nella quotidianità, Mohamed Bouhlel e- ra un cialtrone anche nel suo fondamentalismo.  «Sapevamo tutti che non osservava troppo scrupolosamente il ramadan: mangiava carne di maiale, ballava la salsa, girava in pantaloncini corti», lo dipingono ora le voci di chi lo ha intravisto, sfiorato, sbirciato mentre entrava e usciva dal suo appartamento di rue Saint-Roch, nel quartiere des Abattoirs a Nice Nord. Divorziato da poco, era separato dalla moglie dal 2012 ed era stato allontanato dal precedente domicilio per violenze domestiche. I vicini di casa lo raccontano come un uomo depresso e avvilito. «Lo incrociavo sempre – dice Jasmine, una vicina – ma era un tipo sgarbato che non rispondeva al saluto. A me e ai miei bambini faceva paura. Lo abbiamo sempre visto solo e andava e veniva continuamente». «Non mi è mai sembrato una persona affidabile – dice Anan, un altro vicino di Bouhlel – e tra l’altro guardava troppo le mie due figlie». «Credo che fosse diventato aggressivo dopo il divorzio – dice Mohammed – ma soprattutto era un uomo depresso». Ci dicono davvero qualcosa questi ritratti fugaci? Possono spiegare perché un uomo senza qualità imbraccia un camion come un maglio e fa strage di innocenti? Bastano le frasi fatte, obbligate dei pochi conoscenti a raccontarlo? Frasi che celano il bisogno urgente di racchiudere il mostro nella sua follia senza troppo volerla comprendere. Perché nemmeno il retaggio della famiglia d’origine vicina all’islamismo politicamente moderato riesce a farci decifrare quest’uomo: suo padre era un membro del partito islamista tunisino Ennhada, alcuni parenti in Tunisia erano stati arrestati durante il governo di Ben Ali, per poi uscire beneficiando dell’amnistia del 2011. Si scava attorno a Bouhlel, s’interroga la moglie, i tunisini fanno lo stesso con i parenti. Ma è un lavoro di archeologia dell’orrore che sappiamo già che non aggiungerà molto alla disadorna normalità del terrorista islamico in franchising. Perché è di questo che si tratta, non di altro. «Non ha mai pregato in vita sua», dichiara il fratello di Bouhlel. Ma ai jihadisti del Daesh la religione non serve più, anzi, forse è un ingombro. In un recente numero di Inspire, rivista in inglese di propaganda del Daesh, si suggerisce di usare i camion come delle falciatrici, «non per tagliare l’erba ma per falciare i nemici di Dio». E forse proprio in questo patinato periodico che racconta l’universo jihadista in tutte le sue sfumature si cela l’identikit più appropriato di Bouhlel: quello del lone jihadist, il jihadista solitario, il combattente che si muove – recita un passo folgorante di Inspire – «individually and independently in the land of the kuffar without having to report to the Mujahideen leadership », ovvero agisce da solo e in totale autonomia nella terra degli infedeli senza rapporti con i capi religiosi e militari. Questo era Mohammed Bouhlel, che le autorità francesi – il primo ministro Valls in testa – riconoscono come «un terrorista probabilmente legato all’islam radicale». Un soggetto comunque imprendibile, impossibile da intercettare per tempo nonostante fosse noto per reati comuni. Servo e araldo di un nichilismo totalizzante. E che importa se fra la folla il camion di Bouhlel ha stritolato anche marocchini e tunisini? Si fa sera. Le spiagge di Nizza erano deserte, molti turisti hanno preferito andarsene. Sulla Promenade des Anglais passa lento un camion. Il rimorchio è ingombro di passeggini e carrozzine, recuperati dai vigili urbani e ora lì, nude, allineate. Nessuno le reclamerà più, certo non i poveri bambini caduti sotto il maglio di una follia senza nome.
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