venerdì 17 dicembre 2021
Uomini armati hanno circondato per ore la sede del governo Dbeibah. Trasferito in un sito «sicuro» anche il presidente Menfi che aveva rimosso il capo militare. Dopo la prova di forza torna la calma
Forze di sicurezza davanti alla sede della Commissione elettorale di Bengasi

Forze di sicurezza davanti alla sede della Commissione elettorale di Bengasi - Reuters

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Caos generale e tensione alle stelle in Libia, con le elezioni a sempre più probabile rinvio. Nel marzo scorso, quando l’esecutivo ad interim del premier Abdul Hamid Dbeibah ottenne la fiducia, aveva indicato un compito ben definito: traghettare la Libia fino alle presidenziali del 24 dicembre. Si può dire che il governo è a un passo dal fallimento, e con esso la comunità internazionale che, in più di un’occasione, ha detto di sostenere questo obiettivo fino in fondo. L’annuncio del rinvio – che si spera di poche settimane – è atteso da un momento all’altro.
Tutti hanno capito che sarà necessario, ma nessuno vuole assumere il compito di annunciarlo. Dal punto di vista puramente tecnico, è infatti improbabile che alla vigilia di Natale si svolga la sfida fra il generale Khalifa Haftar, il figlio del colonnello Seif al-Islam Gheddafi e lo stesso premier Dbeibah. Sabato scorso, l’Alta Commissione elettorale libica aveva rinviato sine die la pubblicazione della lista definitiva dei candidati spiegando di dover ancora «adottare una serie di misure», ma bloccando di fatto anche la già breve campagna elettorale. Un primo segnale è arrivato ieri da un membro della Hnec, Abu Bakr Marda, che ha detto che «non è possibile tenere le elezioni il 24 dicembre».
Poco prima, il capo della commissione Affari interni della Camera, Sulaiman al-Harari, ha detto che il primo ministro e il ministro dell’Interno sono tenuti ad ammettere di essere stati negligenti per quanto riguarda la sicurezza del processo elettorale, gli assalti ai tribunali e la chiusura dei seggi elettorali negli ultimi giorni.

Il premier ad interim libico Abdul Hamid Dbeibah

Il premier ad interim libico Abdul Hamid Dbeibah - Ansa

Ma l’escalation non si è fermata lì. Nella notte tra mercoledì e giovedì, gli abitanti di Tripoli hanno assistito all’ennesima prova di forza tra milizie rivali, quando uomini armati hanno circondato la sede del governo e l’ufficio del premier Dbeibah. Il presidente del Consiglio presidenziale, Mohammed al-Menfi, ha chiesto l’intervento di forze di sicurezza ed è stato trasferito in un luogo sicuro insieme ad altri membri dello stesso Consiglio. All’origine della mobilitazione, sarebbe stata la decisione dello stesso Menfi di licenziare il comandante del distretto militare di Tripoli, Abdel Basset Marwan, vicino a potenti milizie locali, e di nominare al suo posto il generale Abdel Qader Mansour. Il leader della Brigata al-Samoud, Salah Badi, ha detto che «non ci saranno elezioni presidenziali in Libia, chiuderemo tutte le istituzioni statali». Badi, di Misurata, è sulla lista nera dell’Onu dal 2018 per aver tentato di rimuovere l’allora governo di unità nazionale di Fayez al-Sarraj e per aver condotto azioni armate nella capitale causando vittime civili.
Fonti militari libiche hanno cercato successivamente di sminuire la gravità dell’episodio sostenendo che a mobilitarsi sono state «unità preposte a garantire la sicurezza delle istituzioni statali». In serata, comunque, forze del ministero dell’Interno avrebbero «ripreso il controllo». Ma il clima di tensione sta rendendo la scadenza elettorale una corsa a ostacoli. Con sempre più frequenti scontri, come a Sebha, nel Sud del Paese, tra le milizie di Haftar e quelle legate a Tripoli. I signori della guerra libici non hanno alcuna intenzione di lasciare il campo a un processo democratico. Esattamente come la Russia e la Turchia invitate lo scorso 12 novembre – ma senza nominarle – dai partecipanti alla Conferenza di Parigi a ritirare i propri mercenari dal territorio libico. Ankara aveva prontamente protestato, asserendo che la sua presenza militare rappresentava una «forza di stabilità» nel quadro di un accordo stipulato con il governo libico e che non andava «in nessun modo essere messa sullo stesso piano dei mercenari portati da altri Paesi».

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