martedì 20 luglio 2010
Come l'Araba fenice il Paese è risorto ancora dalle sue ceneri e Beirut è oggi al centro di forti investimenti. Il Pil cresce del 8-9% l'anno anche in tempo di crisi. Dietro la calma apparente, però, si avverte il rischio di una nuova battaglia tra sciiti e sunniti.
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Seduta a un tavolino da Chez Paul, ritrovo obbligato di intellettuali e artisti, Belinda Beatrice Ibrahim scuote la grande massa di capelli: «Sì, le cose vanno bene. Forse troppo bene. E noi libanesi siamo abituati a diffidare dei periodi di vacche grasse. Quindi alla tua domanda preferisco rispondere così: "Stiamo tutti bene, ma solo fino alla prossima guerra"».In uno dei suoi libri più acclamati, Hiroshima mon amour, Nouvelles d’una guerre ancienne, la Ibrahim svela tutto il suo scetticismo e insieme quel veleno sottile e persistente che scorre come una linfa segreta nelle vene dei libanesi. La paura che tutto finisca, che una nuova guerra civile spezzi il Paese in un mosaico di rivalità etniche, che i due potenti vicini – quello siriano e quello israeliano – facciano risentire la loro voce, che il Partito di Dio Hezbollah scateni un nuovo conflitto con l’inevitabile ritorsione militare di Tsahal.Eppure a giudicare dal colpo d’occhio che si coglie accarezzando con lo sguardo la Corniche, quella falce di terra e di mare per cui Beirut va giustamente famosa, si direbbe che mai come oggi il Libano stia risorgendo dalle sue ceneri, come l’araba fenice. I segni più eloquenti, quella miriade quasi insolente di edifici residenziali, di alberghi a cinque stelle, quei viali del lusso che allineano in pochi metri le griffe più celebrate del mondo. «È il tipico gigantismo saudita – dice Patricia Khoder, editorialista de L’Orient-Le Jour, influente quotidiano della capitale –. Caro a Rafik Hariri: costruire, costruire e poi ancora costruire, rifare la faccia della città, riempire la costa, da Achrafieh fino a Junieh, dalle spiagge sunnite a quelle cristiane di alberghi, case di lusso, residence, negozi». È tutto vero. Ricchissime conglomerate di Ryad sbarcano in Libano per innalzare cattedrali di cemento dai costi proibitivi: anche 13 mila euro al metro quadro per certi superattici con vista sulla Corniche e lotti minimi di 300 metri, «perché – confida l’agente immobiliare Rashid Sleiman – è impensabile che chi può permettersi questi prezzi si accontenti di un bilocale». «La nostra bilancia dei pagamenti – conferma il ministro dell’Economia Mohamad Safadi, che incontriamo in occasione di un forum italo-libanese a Beirut – ha avuto un surplus di 7,9 miliardi di dollari nel 2009, il doppio dell’anno precedente. E per il 2010 si prevede un’ulteriore impennata del 23 per cento». «Lo stesso Fondo monetario internazionale – precisa il direttore dell’Ice a Beirut Sebastiano Del Monte – stima una crescita del Pil libanese nell’ordine del 9 per cento per il 2009 e dell’8% per l’anno in corso. Un po’ come dire che il Libano è un Paese anticiclico: nonostante la crisi, sono cresciuti i consumi, i flussi finanziari e le rimesse della diaspora internazionale». La riprova di questa valanga di denaro – che significa necessariamente benessere – la si ritrova perfino in casa palestinese: «A una cena di gala officiata dal facoltoso imprenditore Faysal Alami – spiega Patricia Khoder – sono stati raccolti 260 mila dollari in meno di dieci minuti: soldi destinati ai 12 campi profughi disseminati in tutto il Libano. Alami è palestinese, oltre che ricco».Ma dietro ai lustrini dei ricchi quartieri cristiani e sunniti, questo Eldorado libanese svela molte altre facce. Basta una visita a Dbayeh, a Sabra e Chatila, a Marieh, campi profughi non lontani dalla capitale, per scovare un Libano povero e dimenticato, che scende in piazza a protestare il diritto a una cittadinanza normale e all’accesso a quelle professioni che ai palestinesi sono negate. Come dice Wafa Yassir Abdelsamad, direttore di una ong a Beirut: «Fino a qualche tempo fa ai palestinesi veniva negata la possibilità di avvicinarsi a ben settanta professioni liberali. Ora sono scese a venti, ma secondo lo Stato un palestinese non può fare il medico, l’avvocato, l’ingegnere, il commercialista, il professore di università. Come dire che è una condanna permanente per 500 mila persone a restare cittadini di serie B e a volte di serie C».Ma qui siamo in Libano e non dobbiamo stupirci di certi contrasti, di certi smaglianti voltafaccia: come quello di Walid Jumblat, leader druso e socialista che dopo anni di feroce politica antisiriana abbandona la coalizione di Hariri e si sposta al centro con un occhio benevolo nei confronti di Damasco, così come ha fatto – si parva licet componere magnis – Haifa Wehbe, ex miss Libano e cantante famosa, che diede voce alla protesta popolare all’indomani dell’assassinio di Rafik Hariri con la straziante Baddi Eesh ("Voglio vivere"), e ora strizza l’occhio a Hezbollah e ai siriani. Ma che dire dello stesso Saad Hariri, ora a capo di un governo di unità nazionale allargato agli sciiti di Amal, a Hezbollah e ai cristiani del generale Aoun, che alla vigilia della chiusura dell’istruttoria sull’assassinio di suo padre da parte del Tribunale speciale istituito dall’Onu se ne va a Damasco va a incontrare Basher al Assad, per molti il mandante di quell’omicidio che innescò la ritirata siriana dall’appetitosa provincia libanese?«Il Tribunale speciale – è il parere che filtra dalla nunziatura apostolica di Harissa – ha un handicap di fondo: cerca di risolvere un attentato politico con un apparato giudiziario apolitico. Le conclusioni dipenderanno invece proprio dal clima politico che ci sarà. E quella potrebbe essere l’esca per riaprire i conflitti». Molti temono il verdetto di settembre. E soprattutto temono che un pronunciamento sfavorevole nei confronti della Siria accenda la miccia di Hezbollah, che secondo l’intelligence israeliana si è dotato di nuovi vettori, armi "lunghe", capaci di raggiungere Haifa o la Galilea anche al di qua del fiume Litani, la linea dove si è celebrato il cessate il fuoco nel 2006 e dove tuttora è acquartierato il contingente di interposizione Unifil incaricato di far rispettare la risoluzione 1701. Ma dei tanti fantasmi che popolano l’immaginario collettivo libanese uno su tutti si va profilando nell’intera sua potenziale minaccia: quello di uno scontro sul campo fra sciiti e sunniti. «Il punto critico sembra già raggiunto, anche se non si vede – dice Mahmet Masouri, del Daily Star, quotidiano vicino al premier Hariri – Condoleezza Rice aveva cercato di allestire una sorta di "sunni belt", un cordone sanitario che dall’Iraq del post Saddam arrivasse fino all’Egitto di Hosni Mubark e alla Giordania del giovane re Hussein passando per il vero centro propulsore del mondo sunnita, ovvero l’Arabia Saudita dell’ortodossia wahabita. Ma l’Iran sciita ha messo radici sempre più profonde: da Hezbollah ad Hamas, fino a Damasco e al tempo stesso Ryad oggi appare sempre più debole, come in decomposizione è il lungo regno autoritario di Mubarak: in entrambi i Paesi si pensa con insistenza a un "dopo", che non garantisce affatto la continuità di certe alleanze». «Il Libano sta nel mezzo di questo sconquasso – considera con un po’ di amarezza Belinda Ibrahim – e naviga come può, un po’ pensando di essere il Titanic un minuto prima del suo incontro fatale con l’iceberg, un po’ sfidando la sorte con quella volontà incancellabile di sopravvivenza che solo i libanesi possiedono». Scende la notte su Beirut, mentre un’orda di gigantesche fuoristrada si incolonna davanti allo Sky Bar, il nuovo ritrovo sul mare della jeunesse dorée beirutina. Ci sono molti modi di tenere a bada la paura, e i libanesi li adoperano tutti.
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