mercoledì 18 settembre 2019
«Nessuno oggi va più ad abitare e a morire nel deserto, come Ariel Sharon. Oggi si preferisce il lusso scintillante di Tel Aviv. È un’altra Israele…»
Foto Ansa

Foto Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

La domanda non è cambiata rispetto a cinque mesi fa: com’è possibile che la sfida per il primato si giochi fra due formazioni di destra e centro-destra ostaggio di un terzo più piccolo ma decisivo partito sempre di destra? Com’è possibile, si domandano in molti con costernata incredulità, che a polarizzare la vita politica sia ancora lo scontro fra il cinque volte melekh ysrael, (re di Israele) Benjamin Netanyahu, recordman di premierati a un’incollatura dalla longevità politica del fondatore dello Stato Ben Gurion, e il ramatkal Benny Gantz, ex capo di stato maggiore dell’Idf, le Forze di difesa con la stella di David? Ovvero fra il campione del Likud, il partito liberal- conservatore ispirato dal pensiero del sionista Ze’ev Jabotinsky che ebbe in Menachem Begin, in Yitzhak Shamir, in Ariel Sharon i suoi più illustri esponenti, e quel Blu Bianco – raggruppamento formalmente cen- trista, ma ampiamente sovrapponibile sulle questioni di sicurezza e di risposte militari – che fino alla vigilia delle elezioni di primavera mostrava un Gantz in piena esaltazione guerresca? In mezzo c’è l’ultra nazionalista Avigdor Lieberman, il socio guastafeste ed ex ministro della Difesa, che con il suo piccolo partito Israel Beitenu – zoccolo duro del milione e mezzo di ebrei emigrati dopo il crollo dell’Unione Sovietica – fa e disfa la maggioranza ricattando e condizionando Netanyahu.

La risposta a simile domanda sta nella ormai perduta verginità di Israele e nell’eclisse di quella sinistra – laburista, idealista, dei kibbutzim – che fece nascere settantuno anni fa il giovane Stato ebraico e che ha allineato nel corso della sua lunga storia figure come Ben Gurion, Moshe Dayan, Golda Meir, Shimon Peres, Yitzhak Rabin, Ehud Barak. Tutti volti di una socialdemocrazia riformatrice lontana mille miglia dal sovranismo truculento e a buon mercato del Likud dei nostri giorni come dall’ossessione religiosa in cui si accampano i piccolissimi (ma spesso indispensabili) partiti ultraortodossi.

Un’élite, quella laburista, che ha dato forma e volto a Israele alternandosi a lungo con la destra e assommando vittorie e sconfitte, fino a smarrire la propria vocazione all’indomani di quella mutazione della sensibilità mondiale avvenuto con l’attentato alle Torri Gemelle e con lo sfilacciarsi della fiducia negli Accordi di Oslo, cedendo terreno in una lenta finora irreversibile emorragia di consensi. E insieme dell’anima tradizionale della politica israeliana.

Con l’eclisse della sinistra si è inabissata la stessa questione palestinese. Il tema (due Stati per due popoli) non è nemmeno in agenda nello scontro elettorale, mentre lo è la promessa di Bibi Netanyahu di annettere in caso di rielezione la Valle del giordano e l’area nord del Mar Morto in Cisgiordania, dove vivono diecimila coloni ebrei e sessantacinquemila palestinesi (ipotesi che piace a più del 44 per cento degli elettori ebrei). A fianco dell’eutanasia politica della sinistra storica israeliana si intravede la stentata presa di coscienza politica della minoranza palestinese, quel 21% della popolazione costituito da arabo-israeliani che ritualmente disertano e le urne che faticosamente si riconoscono nei quattro partiti che li rappresentano (oggi radunati nella Lau, la Lista araba unita di Ayman Odeh). «Andassero tutti a votare – si sgolano i partigiani della democrazia come lo scrittore David Grossman – probabilmente Netanyahu non riuscirebbe ad avere la maggioranza relativa».

Peccato che Benny Gantz, il quale sa bene che per tradizione i partiti non sionisti non sono mai graditi nel governo, abbia respinto al mittente l’offerta di alleanza degli arabo-israeliani. Un’offerta che l’élite laburista di un tempo avrebbe comunque preso in considerazione. «Nessuno – dice l’anziano corrispondente di guerra Nissim Dahan – oggi va più ad abitare e a morire nel deserto, come facevano Ben Gurion, o Ariel Sharon. Oggi si preferisce il lusso scintillante di Tel Aviv. È un’altra Israele…». Vero. Sicuramente in cerca di un’identità che al momento ha smarrito.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: