venerdì 17 febbraio 2023
Via libera definitvo del Parlamento. Appello dei leader religiosi per la vita
Il premier spagnolo Pedro Sanchez

Il premier spagnolo Pedro Sanchez - Ansa

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Il Parlamento spagnolo ha dato ieri il via libera definitivo alla riforma dell’aborto, che ripristina il diritto per le adolescenti di 16 e 17 anni di interrompere volontariamente la gravidanza senza permesso dei genitori. E alla legge che consente cambiare sesso mediante una semplice dichiarazione amministrativa a partire dai 16 anni.

Si tratta dei due cavalli di battaglia del ministero di Uguaglianza di Unidas Podemos, che hanno seguito iter parlamentari separati, ma entrambi turbolenti. In particolare la legge nota come “ley trans” ha provocato una profonda frattura nel movimento femminista e nella coalizione rosso-viola presieduta da Pedro Sánchez, ricomposta a fatica nel voto in Aula.

La polemica normativa è passata con 191 voti a favore, 60 contrari e 91 astenuti, fra cui l’ex vice-premier socialista, Carmen Calvo, già sanzionata dal suo partito per la posizione difforme. E con l’opposizione frontale del Partito Popolare – che ha promesso di abrogarla, se arriverà alla Moncloa alle prossime elezioni – e dell’estrema destra Vox.

Il testo prevede l’autodeterminazione di genere, con cambio di sesso e nome sui documenti, a partire dai 16 anni. Fra i 14 e i 16 con il consenso dei rappresentanti legali del minore e, fra i 12 e i 14 , con un’autorizzazione giudiziaria.

Sopprime l’obbligo di diagnosi, per accreditare la disforia di genere, o i 2 anni di trattamento ormonale previsti finora.

Proibisce le terapie “di conversione” e prevede l’accesso a tecniche di riproduzione assistita nel Servizio sanitario nazionale per il collettivo Lgtb.

Nella stessa seduta plenaria è passata, con 185 sì, 154 no e 3 astenuti, la riforma dell’aborto. Una settimana dopo l’avallo dato dalla Corte costituzionale alla normativa del 2010, che legalizzava l’intervento nelle prime 14 settimane di gestazione, cui aveva presentato ricorso il Pp 13 anni fa.

La polemica ha investito il leader dei Popolari, Alberto Nuñez Fejióo, che aveva riconosciuto, a titolo personale, l’aborto come «un diritto della donna».

Poi, forzato dalla pressione dei settori più conservatori nel partito, ha rettificato. E ha dichiarato che «non è un diritto fondamentale perché non contemplato nella Convenzione dei Diritti umani», ma è un «diritto riconosciuto a una donna secondo la legislazione del proprio Paese».

Nel precedente passaggio al Senato, nella riforma era stato introdotto un nuovo articolo, che mira a impedire l’approvazione di protocolli per scoraggiare l’intervento, come quello proposto da Vox a Castilla-La Mancha con l’ecografia in 4D nei primi mesi di gravidanza.

Prevede che «le amministrazioni dovranno garantire il libero esercizio dell’interruzione di gravidanza nei termini di questa legge e, soprattutto, veglieranno per evitare che la richiedente sia destinataria di pratiche che pretendono alterare, sia per confermare, revocare o ritardare, la formazione della sua volontà sull’interruzione o no della sua gravidanza». La riforma riconosce il «diritto alla salute mestruale» e al permesso retribuito per ciclo «doloroso e invalidante» certificato dal medico.

Contro le leggi dell’aborto e di legalizzazione dell’eutanasia si sono pronunciati i leader delle principali religioni – cattolici, protestanti, ortodossi e musulmani – riuniti presso la Conferenza Episcopale spagnola, in una “Dichiarazione congiunta sulla dignità della vita umana”.

Nel documento – inviato ai poteri legislativo, esecutivo e giudiziario – senza mettere in dubbio la «legittimità democratica», difendono «la dignità e i diritti dei più vulnerabili», ed esprimono preoccupazione per leggi in cui «la vita umana resta gravemente indifesa». Per cui, chiedono «ai fedeli e alla società di riflettere e assumere l’impegno di cooperare e lavorare tutti assieme perché la vita umana sia protetta e custodita come un dono di Dio».



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