domenica 23 maggio 2010
Viaggio nel Golfo del Messico con la Guardia costiera americana. Presto metà dell’area sarà interdetta alle reti, un colpo durissimo all’economia della regione, che si è appena ripresa dall’enorme disastro di Katrina
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«Non creda alle voci. Siamo in ottime condizioni: il petrolio è a 40 chilometri da riva e se i venti continuano a soffiare da Est, qui non arriverà mai». "Qui" è Dauphin Island, una sottile striscia di sabbia parallela alla costa dell’Alabama meridionale dove qualche centinaio di case siede precariamente fra mare e venti, e dove George Clark e la moglie Caroline da 22 anni gestiscono un bed and breakfast, la Dauphin House. George ultimamente passa molto tempo a convincere i suoi ospiti e se stesso che le tonnellate di greggio sputate ogni giorno dal pozzo della defunta piattaforma Deepwater Horizon (la cifra ufficiale era di 5.000 barili prima che la "siringa" inserita dalla Bp ne aspirasse forse 2.000, ma la quantità reale è impossibile da confermare) non macchieranno le spiagge dell’isola, non si infiltreranno nelle sue delicate lagune, non asfissieranno le sue ostriche, non uccideranno i suoi gamberi. E non butteranno lui e Caroline sul lastrico.Ma dopo colazione lo si sente sbraitare al telefono che non possono proibirgli proprio ora di aumentare la sua copertura assicurativa contro i danni naturali, che l’agente deve capire che ne ha il diritto. In Alabama, Mississippi e Louisiana, la miscela di speranza, forzato ottimismo e preoccupata rabbia di George si ritrova spesso. Il gigantesco lago di greggio, che da nero al centro si fa ramato e poi violaceo alle estremità, come la coda di un pavone, si muove troppo lentamente per provocare panico. Non è Katrina, che cinque anni fa si abbatté su Dauphin Island e in tre ore scaraventò 200 case nell’oceano. «Dopo Katrina, non sono potuto andare in mare per cinque mesi», racconta Steve LeBlanc, di Bayou Le Batre, un villaggio non lontano dal confine con il Mississippi. Qui vivono in 8mila, infanti compresi, e 5mila sono pescatori. Il che vuol dire che molti ragazzini cominciano a buttare le reti per i gamberi a 15, 16 anni, appena possono lasciare la scuola, come ha fatto Steve, che ore è sposato e ha due figli: «Katrina mi ha distrutto la barca. L’ho ricostruita. Due volte, perché l’anno prima l’uragano Ivan aveva fatto lo stesso. Milioni di gamberi sono andati distrutti. Ho aspettato che si ripopolasse. E ho ripreso a pescare. Sarà così anche questa volta, anche perché non so fare altro».Solo che questa volta ci vorranno anni prima che tutto ritorni come prima, assicurano gli esperti. Ma se si rimane a terra, o vicino a riva come fanno i pescatori, è facile illudersi che nulla sia cambiato. Lungo la costa, acquitrini verdi di erba e di canne sommerse sono ancora puntellati dal bianco dei gigli e si aprono in una baia color cobalto, dove è facile incontrare tartarughe e dove i delfini fanno gare di salto dietro le imbarcazioni. A più di un mese dall’esplosione della piattaforma della Bp sembra che il mare nero di cui parlano i giornali sia tutta un’invenzione. Ci vuole più di un’ora di viaggio su una barca della Guardia costiera per scorgerne le prime propaggini. All’inizio sono dei dischi marroni nell’acqua, poco più grandi di una moneta. Nei venti minuti successivi si uniscono a formare dei nastri rossicci e spumosi – l’effetto dei solventi chimici spruzzati dalla Bp – spiega il capitano della barca, Roland Patterson. Dopo un’altra mezz’ora comincia il lago di catrame. La superficie è lucida, pare di vetro. E su questo strato di greggio c’è un gran movimento. Barche che tirano da un capo all’altro strisce di barriere di plastica arancioni o nere: salsicce di un paio di metri attaccate l’una all’altra e dotate di una gonna di un metro che penzola verso il fondo del mare per scremare l’oceano catturando più petrolio possibile. Dopo viene aspirato con potenti tubi su una nave ormeggiata nelle vicinanze.Altre barche trascinano salsicce bianche, queste piene di materiale assorbente come il polipropilene, che devono essere issate a bordo quando sono sature, ma che si stanno rivelando poco utili in mare aperto, dove le onde e le correnti spingono il greggio sopra o sotto la loro portata. Le imbarcazioni sono grandi, ma vederle dall’alto, il giorno dopo, da un aereo della Guardia costiera, le fa apparire minuscole rispetto alla distesa marmorea di petrolio di cui si scorgono a malapena i contorni. I limiti dei sistemi di contenimento sono una delle ragioni della frenetica attività nel raggio di un paio di chilometri dal sito del disastro. Se il tempo peggiora, i venti s’imbizzarriscono e le onde s’impennano, di contenere il greggio al largo non se ne parla più. Si può sperare di fermare parte del petrolio a riva, dove le acque sono più calme e dove i pescatori locali, reclutati dalla Bp, hanno già steso duecento chilometri di nastri di contenimento e raccolta. Ma anche lì farebbero ben poco durante una tempesta. «Un urgano può spingere tonnellate di greggio a riva in un paio d’ore – spiega Renee Aiello, ufficiale della Guardia Costiera – e la stagione degli uragani comincia puntualmente a giugno».E allora sarà inevitabile che il petrolio s’infili nelle migliaia di insenature e paludi che trasformano chilometri di costa in un delicato merletto, tanto che dall’aereo è impossibile scorgere la linea contigua della riva e mare e terra si fondono in modo inestricabile. Che cosa succederà? Ed Overton, docente di Chimica della Louisiana State University, pattuglia regolarmente le spiagge di Grand Isle, a sud-est del delta del Mississippi, dove la barca della Guardia costiera con i giornalisti a bordo ha attraccato. Qui il petrolio è già arrivato. Secondo lui i pescatori dovrebbero essere preoccupati, e molto: «Non sappiamo come sarà il tempo, ma tutto questo petrolio arriverà sulla costa e gli effetti saranno devastanti. Non solo per pellicani e tartarughe, ma per l’interno ecosistema degli acquitrini, quello che non si vede. Già il 20% delle acque del Golfo è stato chiuso alla pesca e si arriverà presto al 50. A differenza di un uragano, il divieto potrebbe rimanere per anni». Steve, il pescatore, rimane scettico, ma non è del tutto sprovveduto. Giovedì sera era al centro comunitario di Bayou La Batre dove Erin Brockovich, l’eroina ambientalista che ha dato il nome a un famoso film con Julia Roberts, invitava i pescatori a organizzarsi e a fare causa alla Bp: «Non state con le mani in mano. Questa comunità potrebbe essere distrutta», esortava dal palco. Nella folla c’era anche Caroline Clark, della Dauphin House. «George non è voluto venire – spiega uscendo –, ma dobbiamo proteggerci. I turisti hanno già cominciato a disdire le prenotazioni e il valore delle case sta crollando. Il bed and breakfast è tutto quello che abbiamo».
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