mercoledì 3 aprile 2024
Non solo eventi sismici. A ipotecare il futuro dell'isola anche i rapporti con la Cina e l'incubo di un conflitto. Se si fermasse l'industria del chip di Tapei, affonderebbe anche il commercio globale
I danni del terremoto a Taiwan

I danni del terremoto a Taiwan - Ansa

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La faglia e l’ingombrante vicino, la Cina. La sismologia e la geopolitica. Una doppia vulnerabilità minaccia di ipotecare il futuro di Taiwan, un’isola grande un po’ meno della Toscana e del Lazio messe insieme, lungo e sotto la quale non corre soltanto l’“Anello di Fuoco” del Pacifico – la linea di faglie sismiche che circondano l’Oceano Pacifico – ma anche la “linea rossa” tra Stati Uniti e Cina e l’incubo di un nuovo conflitto mondiale. Ma non basta: al futuro di Taiwan è appeso anche il destino della globalizzazione, quel fenomeno fino a poco tempo fa considerato irreversibile e che prima il Covid, poi la guerra in Ucraina, poi le turbolenze geopolitiche hanno profondamente ammaccato. Svelando il punto debole del commercio mondiale: le catene di approvvigionamento. Perché Taipei è la capitale incontrastata della produzione dei semiconduttori. Fiore all’occhiello del Paese è la Taiwan Semiconductor Manufacturing Co (Tsmc), vero gigante del settore: produce da solo il 90% dei chip per processori più avanzati al mondo. Come scrive il quotidiano di Singapore The Straits Times, sfornare chip «è un processo estremamente complicato e, per decenni, Tsmc ha concentrato gli impianti di produzione sull’isola, in modo che gli ingegneri potessero lavorare insieme per condividere le loro competenze». L’azienda ha recentemente deciso di diversificare la localizzazioni, aprendo sedi in Giappone e negli Stati Uniti ma ci vorranno anni perché le nuove linee produttive siano competitive.

Un’eventuale drammatica interruzione, causato da un evento sismico come quello di oggi, nella fornitura dei chip avrebbe effetti a catena e paralizzerebbe i mercati di mezzo mondo. Ancora più catastrofici sarebbero gli effetti di un conflitto con la Cina, che anche ieri - dopo la telefonata tra Biden e Xi che ha misurato tutta la distanza tra i due leader sul dossier dell’“isola ribelle” – non ha risparmiato a Taiwan la ormai consueta pressione militare, con 30 aerei e 9 navi da guerra che hanno “circondato” l’isola. Secondo un’analisi di Bloomberg Economics, il Pil degli Stati Uniti «potrebbe subire una contrazione del 6,7% nel primo anno di conflitto se Washington dovesse essere coinvolta in una guerra Cina-Taiwan». Nel caso di un blocco cinese dell’isola, «gli Stati Uniti potrebbero registare una riduzione del loro Pil del 3,3% nel primo anno». L’infezione sarebbe globale: sempre secondo Bloomberg, «una guerra per Taiwan potrebbe costare all’economia mondiale qualcosa come 10 trilioni di dollari, circa il 10% del Pil globale».

Come si muoveranno gli attori in campo? La sempre più accentuata polarizzazione tra l’Occidente e il blocco costituito da Russia e Cina non aiuta certo a mitigare i toni. I rapporti tra Taipei e Taiwan sono sempre più burrascosi. Pechino mostra i muscoli, Taiwan cerca l’abbraccio degli Usa, Washington, a sua volta, gioca la sua partita per rallentare l’ascesa della Cina: l’allora presidente Trump lanciò la sua guerra commerciale contro il gigante asiatico nel 2018, Biden ha, a sua volta, bloccato il trasferimento di know how verso Pechino. In questa (temuta) tempesta perfetta, c’è già una vittima. Il commercio globale. E, in particolare, come scrive il sito di analisi Business Insider, la spina dorsale del commercio: le catene di approvvigionamento. Un singolo stop può generare effetti a raggiera perché il modello che si è affermato è quello del “just in time”: i materiali vengono spostati quando sono davvero necessari, non prima. Niente scorte. Se si fermasse Taiwan, il mondo si ritroverebbe senza chip.

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