lunedì 8 gennaio 2024
Dopo aver tenuto per decenni «un basso profilo», Pechino sta assumendo toni e atteggiamenti sempre più assertivi. In gioco c’è il confronto con gli Usa per l’egemonia mondiale
Fanti di Marina dell'Esercito popolare di liberazione cinese in addestramento nella regione autonoma di Macao

Fanti di Marina dell'Esercito popolare di liberazione cinese in addestramento nella regione autonoma di Macao - Ansa

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Il 2023 si è chiuso con il (rassicurante) incontro, il 15 novembre scorso a San Francisco, tra il presidente cinese Xi Jinping e il “padrone di casa” Joe Biden. Sorrisi, strette di mani, passeggiate in scenari bucolici: un’accurata scenografia, dopo un anno di silenzio ostile tra i due leader, per rilanciare un’“amicizia” che sembrava definitivamente compromessa. Il 2024 potrebbe però immediatamente archiviare quella “pace” fragile per ricatapultare le relazioni tra le due super potenze nuovamente nel caos.

L’incognita elezioni

Sabato prossimo i cittadini di Taiwan si recheranno alle urne non solo per eleggere il loro presidente ma, soprattutto, per tracciare la strada lungo la quale si muoveranno i rapporti con l’ingombrante (e minaccioso) vicino. In pratica, un referendum. Pro o contro Pechino. Relazioni più serene oppure, come nei 4 anni precedenti, decisamente conflittuali, sempre sull’orlo del precipizio, con la Cina che continua a moltiplicare le esercitazioni militari attorno all’“isola ribelle” e che batte ossessivamente sul tasto della riunificazione e Taiwan che continua ad armarsi per respingere le “avances”, non proprio gentili, dei cinesi.

È solo la prima delle sfide che attendono il gigante asiatico nel nuovo anno, un anno che sarà letteralmente “spezzato in due” dalle elezioni americane. Dal prossimo inquilino della Casa Bianca – sarà ancora Joe Biden o il redivivo Donald Trump? - dipenderà in gran parte il corso della politica cinese. E i suoi possibili strappi. Perché nessuno si nasconde che la Cina vuole giocare al tavolo da protagonista. In gioco c’è la leadership mondiale. Il primato militare ed economico resta oggi saldamente nelle mani degli Usa. Ma sarà proprio la distanza – o la percezione della distanza - che separa Pechino dagli Usa “l’elastico” che misurerà l’aggressività cinese. Il gigante asiatico continuerà sulla strada di un profilo (relativamente) basso o, invece, tenderà ad alzare la testa e la voce? La micidiale macchina militare che Pechino sta costruendo, ormai da anni, resterà “dormiente” o, al contrario, la Cina sarà tentata da una prova di forza su uno degli scenari conflittuali nei quali è impegnata?

I fronti aperti, latenti o già scabrosi, che la leadership dovrà affrontare sono numerosi. Interni ed esterni. Si va dal forte rallentamento dell’economia ai tarli che segretamente minano il potere cinese, scosso da epurazioni e faide. Un mix che rischia di “silurare” il patto sui cui si regge il dominio del Partito comunista: crescita economica e ricchezza diffusa in cambio di “pace sociale”. Si tratta di un fronte estremamente insidioso, perché tocca la presa del Partito su una società attraversata da cambiamenti epocali. Altrettanto spinosi risultano i dossier esteri. Non c’è solo Taiwan, ma la questione delle Coree e la gestione di un alleato sempre più imprevedibile come Kim Jong-un, che ha ripreso a cannoneggiare le isole sudcoreane. Ci sono le tensioni con le Filippine, e con i (tanti) Paesi irritati dalla pretesa egemonica di Pechino sul Mare Cinese Meridionale considerato da Pechino come “cosa nostra”. Ma anche la più vasta partita geopolitica che si sta giocando, ormai da due anni, attorno alle spoglie dell’Ucraina, con la Russia, alleata sempre più saldamente al gigante asiatico.

La sfida con Taiwan

Come ha scritto il New York Times, «per mezzo secolo, gli Stati Uniti hanno evitato la guerra con la Cina per Taiwan, in gran parte attraverso un delicato equilibrio tra deterrenza e rassicurazione. Ora questo equilibrio sembra andato in frantumi». Washington è da tempo un attore interessato della crisi. Come ha sottolineato la Bbc, un cambiamento epocale sta cambiando le regole del gioco. Joe Biden ha recentemente firmato una sovvenzione di 80 milioni di dollari a Taiwan per l’acquisto di attrezzature militari americane. Un tassello di una strategia ben più ampia. Taipei ha già ordinato armi statunitensi per un valore di oltre 14 miliardi di dollari. «Gli 80 milioni di dollari non sono un prestito – annota la Bbc –. Ma arrivano direttamente dai contribuenti americani. Per la prima volta in più di 40 anni».

Dopo che nel 1979 gli Stati Uniti trasferirono il riconoscimento diplomatico da Taiwan alla Cina, hanno continuato ad armare l’isola, secondo i termini del Taiwan Relations Act. La strategia? Vendere armi sufficienti affinché Taiwan potesse scoraggiare un possibile attacco cinese, garantendo una sorta di bilanciamento strategico tra le due parti, senza però spingersi fino a destabilizzare le relazioni tra Washington e Pechino. «Per decenni, gli Stati Uniti hanno fatto affidamento su questa ambiguità strategica per fare affari con la Cina, pur rimanendo il più fedele alleato di Taiwan. Ma nell’ultimo decennio l’equilibrio militare nello Stretto di Taiwan si è drammaticamente inclinato a favore della Cina. La vecchia formula non funziona più. Washington insiste che la sua politica non è cambiata ma, in modo netto, lo ha fatto».

I tasselli del puzzle rischiano così di impazzire. Taiwan vuole custodire gelosamente la sua singolarità, temendo di sparire nell’abbraccio con il gigantesco vicino. Gli Usa vogliono contenere le mire imperiali di Pechino. La Cina mira ad “allontanare” dal suo cortile di casa Washington, accusata «di manipolare la questione Taiwan in un gioco sempre più pericoloso».

L’economia che traballa

C’è un vulnus che però rischia di sgonfiare le ambizioni egemoniche della Cina. Quel “buco” è l’economia. Per decenni il Paese ha conosciuto un’ascesa vertiginosa. Tra il 1991 e il 2011, l’economia cinese è cresciuta del 10,5% annuo. Dopo il 2012, proprio quando Xi Jinping diventava presidente inaugurando un’era che non si è ancora conclusa, la corsa ha iniziato a rallentare, ma fino al 2021 la crescita veleggiava ancora su una media del 6,7%. Poi la locomotiva ha perso smalto. E colpi.

Il rallentamento – a cui hanno contribuito la gestione dalle oscure tinte totalitarie del Covid, la guerra commerciale voluta dagli Usa e il deterioramento delle relazioni con l’Europa – è evidente. Nel 2023 la crescita si è attestata attorno al 5 per cento. Il confronto con l’economia Usa resta ancora impietoso. Il blocco cinese genera solo il 27% del Pil mondiale rispetto al 67% del blocco statunitense. Nel 2022 gli Stati Uniti e i loro alleati rappresentavano l’84% del totale degli investimenti diretti esteri per Paese investitore e l’87% per Paese destinatario. «L’impatto economico e sociale delle politiche Covid – ha spiegato Lawrence C. Reardon, sinologo dell’Università del New Hampshire – ha profondamente scosso il Partito comunista cinese. Negli ultimi anni, la legittimità della gigantesca macchina del Partito è dipesa dalla sua capacità di garantire tassi di crescita elevati e, quindi, un miglioramento del tenore di vita generalizzato».

Il rallentamento dell’economia potrebbe far esplodere il malcontento serpeggiante nella classe media cinese, la stessa protagonista del patto di “non belligeranza” con il Partito. Riemergerà in Cina il “demone” delle rivolte sociali, una cicatrice mai del tutto sanata, nonostante il silenzio imposto dal Partito? La società cinese conoscerà mai una nuova Tienanmen?

Le tensioni asiatiche

Quello con le Filippine è solo l’ultimo caso. Attriti, minacce verbali, “incontri” ravvicinati tra le rispettive marine. Il motivo è presto detto. Le Filippine occupano una posizione strategica: le isole più settentrionali dell’arcipelago si trovano a 190 chilometri da Taiwan, poco più in là dell’isola più vicina del Giappone (Senkaku a 170 chilometri). Ma non solo Manila. Pechino ritiene di avere “diritti storici” su quasi tutto il Mar Cinese Meridionale.

Un interesse facilmente spiegabile. La Eia (Energy Information Administration) stima che il Mar Cinese Meridionale contenga giacimenti di idrocarburi pari a circa 11 miliardi di barili di petrolio e 190 trilioni di gas naturale. La Cina ha costruito porti, installazioni militari e piste di atterraggio, in particolare nelle isole Paracel e Spratly. La aggressiva politica cinese ha innescato una serie di contese territoriali con diversi Paesi, dal Brunei all’Indonesia, dalla Malesia alle Filippine, da Taiwan al Vietnam. Ma non basta. Questioni annose inquinano i rapporti con l’India, con il Giappone, con la Corea del Sud. Il gigante asiatico, nel quale la memoria degli antichi fasti imperiali si è inabissata ma non è mai del tutto scomparsa, si trova a dover scegliere. Continuare in una politica di espansione mimetizzata, come ai tempi «del basso profilo», patrocinato da Deng Xiaoping. O, al contrario, spingere sulla strada “della diplomazia del lupo guerriero“, tracciata da Xi. La sfida è aperta.

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