domenica 13 maggio 2018
La tensione è altissima. La Città Santa resta un segno di contraddizione, un nodo ancora impossibile da sciogliere e la pace, quindi, resta lontana
L'ambasciata Usa a Gerusalemme nel 70° della fondazione di Israele
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Alta tensione per il 70esimo anniversario della nascita di Israele, lunedì 14 maggio, e della contemporanea apertura dell’ambasciata Usa a Gerusalemme. Sabato sera si sono registrati anche raid aerei contro Hamas nel nord della Striscia di Gaza, è stato colpito anche un tunnel, dopo gli scontri di venerdì con i palestinesi e la chiusura del valico di Kerem Shalom. Mentre gli Usa stanno rafforzando la sicurezza delle sedi diplomatiche in tutti i Paesi islamici. Tanto più che il trasferimento avverrà a pochi giorni dal ritiro Usa dall’intesa nucleare con l’Iran. Decisione sostenuta da Israele. E proprio da Teheran, sabato, è arrivata una nuova minaccia. Il portavoce dell’esercito, Abbas Sadahi, ha affermato: «Se Israele sarà così irresponsabile da attaccarci, raderemo al suolo Tel Aviv».

In un primo tempo, si era ventilata la partecipazione di Donald Trump all’apertura della nuova rappresentanza. Due giorni fa, però, Washington ha annunciato che il presidente non andrà. Al suo posto, una delegazione di cui faranno parte anche la figlia, Ivanka, e il genero, Jared Kushner, considerato il principale ispiratore del “trasloco”, oltre al vice-segretario di Stato, John Sullivan. Trump, però, invierà un video-messaggio. L’ambasciata sarà provvisoriamente ospitata nei locali di quello che era il consolato americano, in attesa della costruzione di un nuovo edificio.

Gerusalemme, la Città Santa segno di contraddizione

Il conto alla rovescia era iniziato qualche settimana fa, quando la stampa internazionale aveva definito maggio «il mese di tutti i rischi» per la sequenza di eventi in programma: le elezioni in Libano con la conferma di Hezbollah come forza ineludibile; il ritiro (poi verificatosi) degli Stati Uniti dall’accordo nucleare con l’Iran; il trasferimento lunedì 14 dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme in occasione del 70esimo anniversario della proclamazione dello Stato di Israele e la commemorazione martedì della Nakba, la «catastrofe» palestinese del 1948. Il tutto su uno sfondo di continui scontri sui confini con Gaza e di sempre più frequenti raid israeliani contro le postazioni iraniane in Siria.

La Città Santa, l’“Umbilicus Mundi”, si rivela essere ancora un nodo insormontabile, una fonte di disaccordi oltre che di frustrazioni per tutti i mediatori che hanno voluto passare alla Storia come gli artefici della soluzione definitiva del conflitto. Rivendicata, almeno nella sua parte orientale (al-Quds), come capitale del loro futuro Stato, “Yerushalayim” è già stata proclamata unilateralmente nel 1980 come «una e indivisibile, capitale eterna di Israele».

Laddove i suoi predecessori hanno fallito, il presidente Trump vuole riuscire proponendo quello che egli stesso ha chiamato «the ultimate deal», l’accordo definitivo. L’elaborazione dell’accordo è stata affidata a tre alti consiglieri dell’amministrazione: il genero Jad Kushner, l’inviato Jason Dov Greenblatt e l’ambasciatore Usa in Israele David Friedman, tutti dichiaratamente filo-israeliani che possono minare in partenza la credibilità del ruolo di mediazione americana nel conflitto.

Secondo rivelazioni diffuse due settimane fa dal Canale 2 della tv israeliana, il piano americano sarà annunciato poco dopo il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme e comprenderà dettagliate soluzioni ai nodi del conflitto, dai confini alle colonie in Cisgiordania, e dalla sorte dei profughi palestinesi alla sicurezza.

Nessuno intende affermare che il processo di pace stesse procedendo bene tra palestinesi e israeliani (è infatti bloccato da anni), ma con la loro mossa, gli Stati Uniti creano una situazione esplosiva, ben peggiore di quella a cui volevano trovare una soluzione.

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