sabato 1 maggio 2010
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Questa è Washington, qui tutti vogliono controllare, avere potere, ma la collaborazione scarseggia. E nascono i problemi». Jack Rice è un ex agente speciale della Cia operativo in Iraq, Afghanistan, Iran e in altri teatri di crisi. Oggi fa l’analista e il commentatore per i grandi network Usa. Il suo giudizio sullo stato dell’intelligence americana è impietoso. «Non funziona», dice secco ad "Avvenire". È un sistema incrostato e poco snello, che ha perso di vista la natura del nemico. Che oggi, spiega Rice, «è il terrorismo di matrice islamica». «Al-Qaeda è flessibile, cambia pelle, si adegua alle sfide. A Washington molti pensano che il network di Benladen sia in fuga. Non è vero, sbagliano». Il caso più evidente è quello di Umar Farouk Abdulmutallab, il giovane nigeriano che la mattina di Natale tentò di far esplodere un volo della Northwest Airlines sopra Detroit. Aggiunge Rice: «Al-Qaeda recluta personaggi insospettabili, o nativi negli Usa e capaci così di aggirare i filtri della sicurezza». Peraltro non sempre rigidi. E qui la faccenda si complica. Umar Farouk non è nato negli Usa, ma era sulla “lista nera”, quella dei passeggeri da non far imbarcare. Eppure, ad Amsterdam, sul volo ci è salito passando la trafila dei controlli. E con l’esplosivo. La strage è stata evitata per un colpo di coda del destino e l’inesperienza di un poco più che aspirante terrorista addestrato nei campi yemeniti. Obama ha redarguito le agenzie d’intelligence: «Non avete collegato i punti (“connect the dots”)». Non era solo quello. In realtà, nemmeno oggi sappiamo con certezza quale delle agenzie di spionaggio fosse incaricata di tenere sotto controllo al-Qaeda nella Penisola arabica. “Connect the dots” è espressione gergale per spiegare che le varie sigle dell’antiterrorismo e della galassia della sicurezza Usa riunite nell’Nctc (il centro nazionale del controterrorismo) non hanno condiviso le informazioni. È una riedizione dello scenario ante-11 settembre. Allora fu l’Fbi a mettersi sulle tracce di Zacarias Moussavi, il 20esimo dirottatore. Lo rintracciarono in una scuola di volo in Minnesota. Era più interessato a imparare a far virare un Boeing anziché a far decollare o atterrare i velivoli e questo insospettì uno dei suo istruttori di volo. Moussavi fu arrestato nell’agosto del 2001 per violazione della legge sull’immigrazione, ma il suo dossier che ne attestava l’affiliazione al network di Benladen si fermò nei cassetti dell’Fbi. «Stavolta – ci dice Paul Pillar, ex analista a Langley e ora professore alla Georgetown University di Washington – bersaglio delle recriminazioni è stato l’Nctc». «Quanto successo – puntualizza l’analista – dimostra una sola cosa: sventare ogni attentato è al di là delle capacità di qualsiasi agenzia o riforma degli 007. E questo non ha nulla a che fare con quante sigle siano raggruppate sotto il cappello intelligence americana». Il problema, aggiunge Fred Burton, già al controterrorismo del Dipartimento di Stato e oggi vicepresidente della società di “global intelligence” Stratfor, «è che il flusso di informazioni che arriva agli analisti è immenso». Eppure, alla frequenti difficoltà di "unire i punti", di raccogliere, capire e condividere le molte informazioni che le “antenne” dell’intelligence (satelliti, reclutatori, informatori, hacker e quant’altro) captano sul terreno, Bush nel 2004 tentò di porre rimedio con l’Intelligence Reform and Terrorism Prevention Act. Ma quella macchina che doveva essere, nelle parole del 43esimo presidente, la risposta per «rendere l’America più sicura», oggi viaggia a ritmi ridotti. Inceppata da una mole di informazioni grezze spesso indecifrabili e frenata dalle lotte di potere fra i burocrati delle 16 agenzie che ora sono coordinate (teoricamente) dal Dni (Direttore nazionale dell’intelligence). Ma che in pratica, come dimostra il caso Umar Farouk, si muovono in un orizzonte a compartimenti stagni. Cia e Fbi continuano a guardarsi in cagnesco ed è solo il caso più eclatante di dualismo non risolto. Il Federal Bureau of Investigation, che dipende dal Dipartimento di Giustizia, ha visto accrescere i suoi poteri assumendo un ruolo più internazionale che sovente va a cozzare con le prerogative della Cia, la quale riferisce solo dall’ufficio dal Dni. E questo, spiega una fonte di "Avvenire" dietro anonimato, «non è gradito. Tutti hanno un referente nei propri ministeri, hanno autonomia, la Cia invece ha perso la sua indipendenza». A Langley, non è un mistero, la riforma di Bush confermata appieno da Obama non è stata accolta fra gli applausi per mille motivi. Lo zar dell’intelligence ha tolto i riflettori al capo della Cia. È lo “zar” (oggi Dennis Blair) che va alla Casa Bianca e supervisiona il bilancio delle agenzie d’intelligence disseminate nei vari ministeri: 50 miliardi di dollari nel 2009 saliti per l’anno fiscale 2010-2011 a 75. Senza contare i quattrini che finiscono all’intelligence militare, quella del Pentagono e che si prende la fetta più grossa (e top secret) dei fondi.La Cia pretende spazio, quello che ha visto sempre accrescere sin dalla sua fondazione nel 1947. Così oggi lo scontro è su chi comanda nelle cosiddette stazioni all’estero. In soldoni, chi è il capo dello spionaggio nelle basi americane (leggi ambasciate, sedi di rappresentanza consolari) disseminate nel mondo? Obama ha frenato la voglia (e il diritto) di Blair di avere l’ultima parola. Il più alto in grado resta un agente della squadra di Leon Panetta, l’uomo che guida la Central Intelligence Agency. Peccato che la commissione che propose la figura del Dni aveva in mente una chiara gerarchia che prevedeva per il capo della Cia la posizione di numero due. Questo non è mai successo. E la Cia oggi resta il perno del controterrorismo. Decide tutto, ma non dovrebbe. Non molto tempo fa lo stesso Obama si trovò a comporre un litigio fra Blair e Panetta. Il primo pretendeva che il via libera per le «covert action» (le operazioni segrete all’estero) fosse dato da lui. Alla fine, ottenne semplicemente di essere informato che un’azione era in corso. Pillar spiega che i «due sono ottimi professionisti e che i loro dissidi sono nel naturale corso delle cose». Altri hanno una visione meno edulcorata. Come Rice: «Il conflitto fra Blair e Panetta? Beh, è la prova che la riforma dell’intelligence è ben lungi dall’essere conclusa».
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