lunedì 9 aprile 2012
Trentacinque profughe sono approdate a Niamey, capitale del Niger, il Venerdì Santo dopo un drammatico viaggio da Gao. La guerra civile, esplosa dopo  il golpe, è segnata da crudeltà sulle minoranze: è in corso una pulizia religiosa condotta dai fondamentalisti.​
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«All’improvviso i colpi d’arma da fuoco, che s’inseguono per ore. Poi appaiono i guerriglieri che saccheggiadno edifici pubblici, Ong e chiese. Dopo poche ore inizia la caccia al cristiano». Le parole – scritte ad <+corsivo>Avvenire<+tondo> dal missionario italiano padre Mauro Armanino – si fanno corpi e visi. Quelli delle 35 donne terrorizzate –madri, anziane, bambine – che il Venerdì Santo hanno raggiunto Niamey, capitale del Niger dove i profughi sono approdati dopo una precipitosa fuga da Gao. «Su un mezzo di fortuna», pagando «alla dogana quello che ancora restava della loro dignità», prosegue la testimonianza di padre Mauro. Che la ha soccorse. E aiutate a fuggire ancora a Cotonou, in Benin.Da lì erano partite molti anni fa per andare a lavorare in Mali. Ora, però, quest’ultimo Paese è precipitato nel caos. Il 22 marzo, una giunta militare ha destituito il presidente Touré e ha preso il potere. Immediatamente, i tuareg e i gruppi qaedisti hanno approfittato della delicata situazione per dichiarare l’indipendenza del Nord. La regione di Azawad – un triangolo di terra e deserto che include anche frammenti di Algeria, Niger e Burkina Faso – è terra di nessuno. Perché la fragile alleanza tra gruppi tuareg e jihadisti è già saltata. E la guerra fra bande ha trasformato le principali città – Timbuctù, Tessalit, Kidal e Gao – in campi di battaglia. I combattimenti, da due giorni, sono finiti. I ribelli hanno il controllo della regione. La giunta, intanto, ha siglato un accordo per una transizione democratica nel Paese: i militari si sono impegnati a cedere il potere al presidente del Parlamento, Diouncounda Traore, che dovrà indire elezione entro 40 giorni, come sollecitato dall’organizzazione economica dell’Africa occidentale, Ecowas. Nelle aree dove operano i fondamentalisti, però, le persecuzioni religiose continuano. A farne le spese è soprattutto la minoranza cristiana, facilmente riconoscibile «dai nomi e dai vestiti».Molti «hanno perso la vita per sempre». Alcuni sono riusciti a scappare, come le 35 donne arrivate a Njamey. Per portare in salvo le loro bimbe – i mariti e i figli maschi le raggiungeranno poi – hanno dovuto travertirle da islamiche. La piccola Alessandra, per esempio, di 6 anni, è diventata Fatimata. «Un’altra l’hanno battezzata Bontou. Il suo primo nome era Antoinette. Le hanno fatto portare il velo come fanno le bambine musulmane da queste parti». Forse, quando la paura sarà passata, Alessandra dimenticherà i giorni di fuga disperata. Per lei «non si trattava che di un gioco da grandi per bambini. Il velo era nero e le donava molto. Sotto c’erano le consuete treccine ben curate. E il sorriso di chi ha la madre accanto». Alessandra ha dovuto far mostra «di rispondere Fatimata quando le hanno chiesto il nome. Ma i bambini si sa fingono di dimenticare». Tanti altri piccoli rimasti intrappolati a Gao non possono nemmeno fingersi qualcun altro. La loro identità etnica e religiosa nel Nord del Mali pesa sulle loro spalle come un macigno. Bambini, donne, giovani e adulti, “colpevoli” di essere cristiani rimangono lì, prede fragili di coloro che «chiamano se stessi liberatori e creano i liberati». E costringono altri, i più deboli, a «cambiare nome, vestito, Dio e Paese per non morire».
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