martedì 10 maggio 2016
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Poche sorprese nei risultati parziali delle combattute elezioni filippine di ieri. Chiara l’affermazione nella corsa alla presidenza di Rodrigo Duterte e del candidato alla vicepresidenza in tandem con lui, Ferdinand Marcos Jr. Vittoria confermata anche dal Ppcrv, l’organizzazione che monitora le elezioni, legata alla Chiesa cattolica: con il 12 per cento dei voti scrutinati, Duterte ha un vantaggio di 5,84 milioni di voti, giudicato incolmabile. «È con umiltà, estrema umiltà, che accetto il mandato del popolo». è stato il primo commento del vincitore. Due personalità diverse che hanno tesaurizzato l’insoddisfazione dei filippini ma che sono state abbinate nei timori di una deriva autoritaria per il Paese. Duterte otterrebbe attorno al 39 per cento delle preferenze e poco meno Marcos, un’accoppiata inedita – quella tra il sindaco-giustiziere e l’erede di una dittatura feroce – che presenta di sé un’immagine inquietante. Al punto che lo stesso presidente Benigno Aquino, moderato e fin troppo conciliante erede di una delle famiglie più influenti del Paese, figlio di Corazon Aquino che fu determinante nella cacciata dei Marcos nel 1986, ha paragonato la crescita di Duterte a quella di Adolf Hitler. Gli avversari di punta più prossimi, l’indipendente Grace Poe e l’esponente del Partito liberale di Aquino, Manuel Roxas, lottavano testa a testa attorno al 22 per cento delle preferenze. Indubbiamente, i modi spicci, il linguaggio diretto e sovente volgare, la gestualità da bullo del candidato primo alla presidenza hanno incantato l’elettorato, mentre abituali elementi calibratori della competizione elettorale sono stati per una volta, se non assenti, sicuramente poco incisivi nella proposta di candidati più opportuni. La scelta dei 55 milioni di elettori – chiamati anche a scegliere metà del Senato e la totalità della Camera, poteri locali per complessivi 18mila posti – ha una ragione di fondo nella povertà delle famiglie che non arretra davanti al crescente divario di reddito e di possibilità. A un benessere che l’aumento della ricchezza prodotta – ancora al 5,8 per cento lo scorso anno – sembrerebbe incentivare, ma che si perde in una gestione con troppe falle, nel sottobosco della politica e di potentati economici, si disperde a pioggia con poca incisività. Mentre la violenza resta endemica incentivata da molti interessi e troppe armi in circolazione. A confermare l’insoddisfazione è ancora una volta il “termometro” dell’emigrazione, non in contrazione significativa nonostante lo stallo globale e che lo scorso anno ha incanalato verso l’arcipelago 30 miliardi di dollari di rimesse. Duterte si è presentato come nemesi dell’establishment, ma ha al suo fianco (sebbene con un potere immensamente inferiore come da Costituzione ma trampolino verso una futura presidenza) si è posto il rampollo di una famiglia che di prevaricazione e clientelismo ha fatto ragione d’essere, ricca di almeno 10 miliardi di dollari sottratti durante la dittatura. Ancora una volta la giornata del voto è stata segnata da fatti di sangue. Una decina i morti, di cui sette in un’imboscata in un sobborgo della capitale Manila. In diverse località, sono stati attaccati seggi elettorali e autoveicoli, rubate le apparecchiature per il voto elettronico. Sono state una cinquantina le vittime dall’inizio della campagna elettorale, a indicare che la violenza è diffusa in tanti ambiti e non solo quella spicciola, di strada, cieca come Duterte vorrebbe far credere. © RIPRODUZIONE RISERVATA PRIMO. Rodrigo Duterte improvvisa una conferenza stampa dopo aver votato a Davao (Ansa/Ap)
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