lunedì 3 ottobre 2011
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Negli Stati Uniti, in Georgia, pochi giorni fa è stato portato sul patibolo e giustiziato Troy Davis, un nero accusato di aver ucciso, più di vent’anni fa, un poliziotto bianco. Le proteste nel mondo, forse meno numerose di come sarebbe stato giusto aspettarsi, sono state vivacissime. Tutte o quasi, però, hanno messo l’accento sulla debolezza delle prove portate contro Davis, sulle ritrattazioni di alcuni decisivi testimoni d’accusa, sull’atmosfera pesantemente razzista che ancora grava negli Stati meridionali dell’Unione, sui tanti anni trascorsi da quando il delitto fu compiuto.Ancora una volta la protesta contro la pena di morte ha scelto di usare come argomento, esplicito o implicito, quello del rischio intollerabile di un tragico errore giudiziario, della forte probabilità che il presunto colpevole si riveli alla fine innocente o comunque del suo estremamente probabile ravvedimento.Sono fondati questi argomenti? No. Non perché siano sbagliati di per sé, ma perché sono irrilevanti: colpisce pertanto che anche un lucido giurista, come Guido Rossi, li usi senza avvedersi di quanto siano sdrucciolevoli (cfr. Il Sole-24 ore di domenica 25 settembre). Infatti, chi vuole battersi davvero contro la pena di morte deve farlo indipendentemente dal fatto che l’imputato possa essersi ravveduto o che si possano raggiungere o no contro di lui prove schiaccianti, «al di là di ogni ragionevole dubbio».Il no alla pena di morte o è assoluto o non è. Al di là del caso di Troy Davis (e purtroppo di tanti altri), non è difficile infatti citare o immaginare situazioni in cui sia assolutamente impossibile dubitare della responsabilità del colpevole o dare prove consistenti della sua irredimibilità. Casi del genere mettono gli avversari della pena di morte in uno stato di imbarazzo e vengono da loro il più delle volte rimossi. Quanto più infatti gli abolizionisti si affannano a cercare di dimostrare che le prove per condannare a morte un imputato sono fragili, inconcludenti, o addirittura manipolate, quanto più auspicano che l’imputato possa redimersi, tanto più dovrebbero senza proteste accettare l’esecuzione nei casi in cui le risultanze processuali siano impeccabili o quando la comprovata malvagità d’animo del criminale non dia alcuna realistica speranza di una sua emenda. Insomma, non è con l’innocentismo o con i buoni sentimenti che si combatte davvero la battaglia contro la pena capitale, ma con una presa di posizione "assoluta". In altre parole, è indispensabile un appello al diritto naturale: la vita umana, anche quella del colpevole più crudele ed efferato, è sempre e comunque intangibile.È evidente che ricorrere al diritto naturale significa correre il rischio di creare una gravissima frattura nel movimento abolizionista della pena capitale. La ragione è chiara: come ha detto il Papa, nel suo recentissimo discorso berlinese al Reichstag, «l’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare... che quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine». Eppure, mai come in questo caso questa menzione si impone; mai, come in questo caso, l’onestà intellettuale esige che si chiamino le cose con il loro nome. Non esistono ragioni "positive", sociologiche, giuridiche, politiche o criminologiche, che possano indurci a ritenere intangibile (cioè sacra) la vita di un colpevole, almeno in situazioni criminose estreme.Esiste invece, per chi riflette a partire dal diritto naturale, la consapevolezza che la vita non ci appartiene, perché siamo piuttosto noi ad appartenere alla vita e per questa sola ragione di essa siamo tutti custodi. Chi, per timidezza, non vorrà riportare nel contesto del diritto naturale quest’argomentazione, che è l’unica che conta davvero, lo faccia pure; ma chi è un giusnaturalista convinto non se ne vergogni. L’esortazione del Papa è diretta anche a lui.
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