sabato 3 maggio 2025
Ogni giorno, ammassati su furgoni di metallo roventi che sembrano carri bestiame, centinaia di profughi vengono espulsi e rimandati ad Haiti. Ma molti sono nati dall'altro lato
Il muro costruito dalla Repubblica Dominicana per fermare i migranti haitiani

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«I rimpatri sono frequenti?». Le grida degli agenti impediscono di sentire la risposta del gesuita Marco Garbari. Schierati lungo il cancello di metallo che divide la Repubblica Dominicana da Haiti, i poliziotti tuonano alla folla, in spagnolo e in creolo, di fare largo. Al tramonto dei giorni di mercato – lunedì e venerdì -, il Ponte Binazionale è un fiume in piena di venditori. Haitiani in gran parte, rimasti fino all’ultimo nella “zona franca” per cercare di spacciare ai vicini le proprie mercanzie. Vestiti, soprattutto: scarti delle grandi marche le quali, attraverso le donazioni, evitano di dover pagare per lo smaltimento. I prezzi calano con il trascorrere delle ore: nessuno vuole rinunciare a guadagnare, pur poco, nell’unico momento di apertura della frontiera, chiusa da oltre un anno. Il ritmo degli scambi è, dunque, frenetico quando irrompe la “gabbia”. Così è chiamato il furgoncino dalle tettoie arrotondate di ferro bianco. Sulla parte posteriore, un tornello interrompe la fila di sbarre. Tra i quadrati metallici si insinuano mani, braccia e piedi. Nonostante l’apparenza non si tratta di un camion per il bestiame. È il veicolo con cui le autorità dominicane rispediscono indietro gli haitiani trovati sul proprio territorio. Non importa da quale lato dell’isola siano venuti al mondo, né se abbiano perso il diritto di restare a Santo Domingo in seguito alla decisione della Corte Suprema di eliminare, nel 2013, la cittadinanza per nascita anche retroattivamente. Né, tantomeno, se fuggano dalla violenza dilagante della gang che dilaga fra le macerie delle istituzioni di Port-au-Prince. Tutti – come ha affermato il 2 ottobre scorso il presidente dominicano, Luis Abinader – «sono irregolari. E saranno espulsi in 10mila alla settimana».

Un numero impegnativo. Alla fine è dovuto scendere a una media di poco più di 7mila, per un totale di 180mila in sei mesi. Tanti comunque. Ma il leader è deciso da fare di più. Abinader ha puntato la campagna per il secondo mandato, appena iniziato, sul giro di vite verso gli irregolari del Paese vicino. Circa mezzo milione di persone, il cui lavoro semi-schiavo è il motore dei “baiteyes”, le piantagioni su cui poggia la produzione agricola. Il governo martella, però, sui costi dei profughi. Più di 430 milioni di dollari l’anno solo per pagare la scuola ai 147mila bimbi haitiani iscritti. E il numero cresce – ripete –: negli ospedali pubblici, le nascite da madri senza documenti sono quasi raddoppiate in cinque anni. Per questo, dal 21 aprile, i pronto soccorso sono tenuti a controllare lo status migratorio dei pazienti e a segnalare i sospetti alla polizia.



«No, non mi hanno preso là. Non ci sarei andato», dice il primo a uscire dalla “gabbia”. È un giovane di poco più di vent’anni, senza altro bagaglio che un cappello da muratore. Aveva appena finito il turno quando lo hanno arrestato. Dietro di lui, uno dopo l’altro, sfilano con estrema lentezza gli altri, storditi da tre giorni di viaggio. Sono diverse decine, tutti uomini, la maggioranza degli espulsi. «I veicoli dovrebbero contenere al massimo trenta persone ma ne caricano di più, anche fino a 140. Gli abusi sono la norma: spesso non danno loro cibo né acqua per tutto il tragitto. Almeno stavolta gli agenti non hanno le fruste per incitarli», dice il religioso impegnato nel Servizio gesuita di assistenza ai migranti nella dominicana Dajabón. Sussurra qualche parola di conforto ai “rimpatriandi” che si dirigono con passo incerto verso la frontiera. Varcata la soglia di Haiti si fermano, sperduti. Ouanaminthe li accoglie in un abbraccio asfissiante di afa e polvere. «Non c’ero mai stato prima. Sono nato in Dominicana. Dovrei avere dei parenti qui vicino ma non li conosco. La mia famiglia è rimasta dall’altra parte: la mia compagna, mia figlia. Non ho idea di cosa farò», racconta Alexi, 28 anni, catturato per la strada, a Santiago.

È deciso a tornare indietro. Lo fanno in tanti. Sotto il ponte ci sono i sentieri per cui i trafficanti trasportano chiunque sia disposto a pagare. La cifra varia dai 200 ai 400 dollari, una parte va in bustarelle ai poliziotti e agli 11mila soldati appena schierati. Gli haitiani sono il business più fiorente in questa fascia condivisa d’isola: 376 chilometri di monti e vallate porosi, dove centinaia di “buchi” si sommano ai quattro passaggi ufficiali. «Lavoravo in un “batey”– aggiunge Juve, 26 anni –. Gli agenti hanno fatto un’ispezione e mi hanno preso. Ero là da dieci anni. Sono stato già deportato una volta. Ora non torno indietro. È solo questione di tempo: prima o poi ti beccano e crolla tutto». Spera di raggiungere alcuni familiari a Cap Haitien, la capitale del nord. La sera, però, il bus non viaggia per ragioni di sicurezza. In ogni caso, non avrebbe i soldi per il biglietto. Va, dunque, nell’unico posto dove qualcuno, in questa selva di mercanti – di merci e di esseri umani – gli tenderà una mano.


La casa del Servizio gesuita per i migranti di Ounaminthe, gemella di quella di Dajabón, spunta a fatica nel caos di baracche sparse per la cittadina. I rimpatriati sanno come trovarla: il percorso circola di bocca in bocca tra i due lati della frontiera. Juve vi arriva senza indugio, sicuro di ricevere cibo, un cambio d’abiti, un rifugio per la notte e un aiuto per il trasporto. «Questa sera va bene: bussano a decine e non a centinaia», racconta il direttore, padre Germain Clerveau, nello studio ricavato al piano di sopra, dopo che le gang, un anno e mezzo fa, hanno razziato gli uffici, situati in un’altra palazzina. «Spesso – prosegue – si presentano da noi seminudi, sfiniti, senza nulla, nemmeno un documento di espulsione che li identifichi e consenta loro di spostarsi per Haiti». I religiosi, dunque, oltre all’accoglienza, aiutano i migranti a farsi registrare. E svolgono un lavoro di monitoraggio e documentazione sulla frontiera di fatto unico. «Al contempo, anche se è molto difficile, cerchiamo di agire sulle cause dell’esodo, dando formazione tecnica ai contadini. La gran parte pratica un’agricoltura di sussistenza, incapace di garantire cibo sufficiente. Specie ora, con il riscaldamento globale da cui l’isola è particolarmente colpita». Proprio la sete d’acqua per irrigare i campi acuisce le tensioni, già croniche, con Santo Domingo.

Le ragioni affondano nei ventidue anni di riunificazione dell’isola da parte degli ex schiavi all’indomani della nascita della prima Repubblica nera, nel 1804. I dominicani l’hanno vissuta come un’occupazione la cui fine, il 27 febbraio 1844, viene tuttora celebrata come l’Indipendenza. Negli ultimi due secoli, il pregiudizio nei loro confronti è stata la bandiera con cui le élites locali hanno cercato di riunire la nazione intorno a un nemico comune. Il Rio Masacre, a cavallo fra i due Paesi, deve il nome alla strage di migliaia di haitiani perpetrata dal dittatore Leonidas Trujillo nel 1937. Le sue acque, narrano i pochi testimoni rimasti, si tinsero di rosso per il sangue delle vittime. Ora scorrono grigie e limacciose tra Pitober e Manzanillo fino a incunearsi nel “canale della discordia”: Haiti ne ha iniziato la costruzione nel 2021 per irrigare l’arida pianura di Maribahoux. I vicini l’hanno accusata di rubare le risorse idriche comuni. Il fragile accordo per evitare il conflitto ha rischiato di andare in pezzi più volte, l’ultima lo scorso settembre. Nel frattempo, Santo Domingo ha accelerato la costruzione del muro anti-migranti, cominciato tre anni fa, non lontano da questo tratto del Rio Masacre.

Yves s’aggira per il lungomare in sfacelo di Cap Haitien. È qui da mesi ma fatica con il creolo. «Sono dominicano per nascita ma non per legge», dice in spagnolo. Poi si piega e tira fuori un panno malandato: «Lasciati pulire le scarpe. Non importa se sono da ginnastica, te le faccio brillare. Non chiedo elemosina, voglio solo lavorare. Ma ad Haiti non c’è lavoro. Non c’è più niente».

(4.Continua)


Un gesto per i Figli di Haiti: aiuta ad andare a scuola i bimbi della Maison des Anges, l’orfanotrofio sfollato
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Causale: Figli di Haiti

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