domenica 22 dicembre 2013
​Il primo Natale dopo la devastazioni dell'8 novembre. I vescovi: anche in questo dolore nasce Gesù.  di Stefano Vecchia
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«A Tacloban, la condivisione è anche quella dell’ultima bottiglia d’acqua, di una scodella di riso. Sono stati proprio quelli senza più nulla ad accoglierci e a farci capire come laggiù non c’è spazio per la rassegnazione». Soprattutto in questi giorni co­sì vicini al Natale, il primo dopo quell’inferno di acqua e vento che l’8 novembre ha devasta­to la grande isola di Leyte.
 
Suor Marivel, reli­giosa filippina della congregazione delle Do­menicane della Beata Imelda, è appena rien­trata nella sua sede di Calabanga sull’isola di Luzon, in un’area appena sfiorata dal tifone do­po alcuni giorni passati nella città-simbolo del­la devastazione di Haiyan. «È chiarissimo che la solidarietà tradizionale ha risposto ancora u­na volta alle necessità dei filippini. Appoggian­do la volontà di ripresa che tutti sia aspettano sia accompagnata dal sostegno delle autorità lo­cali e anche dall’aiuto internazionale».
 
Tacloban è una città distrutta, in buona parte ancora senza corrente elettrica. Nessun ad­dobbo nelle poche case in piedi, nelle tende o nei rifugi di fortuna. Qualche simbolo natalizio solo nelle chiese, in buona parte diventate ri­fugio degli sfollati, come pure le scuole. Solida­rietà e fede, binomio inscindibile che ha con­sentito ai filippini di rimettersi in piedi dopo o­gni conflitto e ogni catastrofe. «Una fede commovente – continua la suora –. Alcuni si lamentano dei ritardi nei soccorsi, al­tri per le necessità più elementari. Hanno bi­sogno di parlarne, di raccontare... Molti pensa­no ci vorranno anni per recuperare la vita di prima, ma non c’è posto per la disperazione. Per molti, però, lo sappiamo, è anche incapa­cità di dimostrare un dolore troppo profondo».
 
A Tacloban, suor Marivel ha accompagnato psicologi specializzati nel sostegno a chi ha subi­to forti traumi, ma ha anche portato, a nome delle famiglie degli studenti della scuola gesti­ta dalla sua congregazione e di benefattori, ma­teriale per consentire a un migliaio di bambini di riprendere il percorso educativo. Il Natale post-tifone nelle Filippine resta però anche speranza e solidarietà. Ovunque le tra­dizionali occasioni augurali nelle aziende, nel­le organizzazioni, nelle istituzioni pubbliche e private, fino a Parlamento e governo sono sta­te ridotte o cancellate, con il corrispondente in denaro o beni donato alle vittime. Limitate le celebrazioni familiari e parrocchiali e invece moltiplicate le occasioni benefiche, la solida­rietà ha superato la tradizione generosa di que­sta terra e ha coinvolto tutti senza distinzione di luogo, classe o censo. A gara con le previsio­ni sui costi dell’emergenza e della ricostruzio­ne che superano ormai i 7 miliardi di euro.
 
Come ha ricordato la Conferenza episcopale fi­lippina ai propri dipendenti, «non dobbiamo la­sciare che la devastazione di Yolanda (il nome dato nell’arcipelago a Haiyan, ndr ) ci impedi­sca di ricordare la nascita di Gesù. In solidarietà con i nostri fratelli e sorelle che stanno soffren­do, evitiamo però ogni eccesso. Possiamo cele­brare l’Eucaristia, ricordare nelle nostre pre­ghiere le vittime di Yolanda, il nostro Paese e il nostro popolo. Concediamoci però semplici pasti, niente scambio di doni, lotterie o pro­grammi di intrattenimento». Un Natale del cuore, in stile filippino che ha in­finiti segni e risultati inattesi. Tra cui un’inedi­ta tregua tra governo e ribelli maoisti del Nuo­vo esercito del popolo che ha roccaforti proprio nelle isole colpite da Haiyan. Una ventina di giorni di pace con il lasciapassare ai ribelli per visitare le proprie famiglie, le proprie comu­nità, segnala che Haiyan è forse uno spartiac­que per il Paese: gli ha dato maggiore consa­pevolezza e unità e insieme coscienza che la formula «bahala na!» (sia come Dio vuole), non basta più davanti all’assedio delle forze della natura e davanti alle tante possibilità e pro­messe disattese.
 
Non sono soltanto impegno e buona volontà a segnare il Natale post-Haiyan. L’emergenza e ancor più la dispersione di tante famiglie ha creato possibilità per i criminali. «Già si vedo­no manifesti che mostrano le foto di bambini fra 3 e 15 anni scomparsi, probabilmente rapi­ti e venduti. Cinque sono stati salvati dagli as­sistenti sociali: erano già stati adescati da traf­ficanti, probabilmente a scopo di sfruttamen­to sessuale», segnala padre Shay Cullen, mis­sionario irlandese di San Colombano pioniere dell’impegno a fianco delle giovani vittime di “mercanti di esseri umani” e del loro sempre precario recupero. Ricordando anche che la de­vastazione di Leyte e Samar apre oggi a un mon­do altrimenti distratto lo scenario di «oltre un milione di bambini nelle Filippine vittime di prostituzione, pedofilia e sfruttamento che pas­seranno un Natale senza gioia».
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