venerdì 6 agosto 2021
Rischiano la condanna a morte e sono fuggiti in Sud Sudan ma fanatici musulmani, aizzati anche dal padre di lei, vogliono ucciderli. Appello a papa Francesco: «Spero ci possa aiutare»
Eshan Ahmed Abdallah e Deng Anei Awen e il tribunale di Khartum che spesso ha emesso condanne a morte per apostasia

Eshan Ahmed Abdallah e Deng Anei Awen e il tribunale di Khartum che spesso ha emesso condanne a morte per apostasia - Ansa

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Eshan Ahmed Abdallah e Deng Anei Awen hanno poco più di vent’anni. Lei musulmana di Omdurman, Sudan. Lui cristiano di Aweil, Sud Sudan. Si sono innamorati. Un anno fa, dopo essere fuggiti dal Sudan, dove la famiglia di Eshan si opponeva alla loro unione, sono arrivati a Juba e si sono sposati. Ora aspettano il loro primo bambino. E vivono con una minaccia di morte pendente sulle loro giovani esistenze.

«Abbiamo dovuto sposarci con rito islamico perché avevamo troppa paura – ci dice al telefono Deng –. Ma, essendo io cristiano, l’arcidiocesi di Juba ci ha rilasciato un regolare certificato di matrimonio. Ora, a causa delle accuse che i gruppi islamici ci hanno rivolto, rischiamo la vita». Deng rivolge quindi un appello a papa Francesco: «Spero possa aiutarci a salvare le nostre vite», dice con tono accorato.

Ahmed Adam Abdullah, il padre della giovane sudanese, si è rivolto alla figlia attraverso un video pubblicato sul suo profilo Facebook. «Non pensare che scappando da me tu sia in salvo. Ti raggiungerò. Giuro ad Allah che ovunque tu vada verrò lì e ti taglierò a pezzi. Se non vuoi cambiare la tua opinione e tornare, verrò lì e ti ucciderò», ha scritto. I due sposi sanno di non essere al sicuro a Juba. Hanno chiesto l’intervento del governo sudsudanese. Ma l’appello ha avuto esito negativo: il ministro della Giustizia ha detto di non poter far nulla per aiutarli.

Il Consiglio musulmano locale sudanese al quale si è appellata la famiglia di Eshan – affermando in un primo momento che era stata rapita – ha condannato il matrimonio, ritenendolo nullo, e ha emesso un mandato di arresto per la coppia. Era stata la stessa giovane donna ad annunciare con un video su Facebook che lei e Deng si erano sposati, smentendo di essere stata rapita e affermando di aver lasciato il Sudan per sua libera scelta. Come libera era stata la volontà di unirsi a colui che riteneva «adatto a sé». Lo aveva sottolineato in una registrazione postata sui social che si chiudeva con la denuncia delle percosse, della privazione della libertà e della grave pressione psicologica subite quando aveva rivelato ai suoi genitori l’amore per Deng.

Questo suo coraggioso atto di indipendenza e rivendicazione dei diritti le è però costato caro. Il suo post, come le foto pubblicate dal marito, in cui appare senza un hijab, sono state diffuse sui social media sudanesi, animando una campagna di odio nei loro confronti. La società conservatrice sudanese, ancora soggetta e condizionata alla Sharia, è estremamente chiusa in merito ai matrimoni misti. Anche se quando a chiedere di sposare una persona di religione diversa da quella musulmana è un uomo, il problema non sussiste.

Eshan sapeva che sposando un uomo del Sud Sudan, per di più cristiano, senza il permesso dei genitori, sarebbe andata contro la loro mentalità arcaica, ma sperava che col tempo lo avrebbero accettato. Mai avrebbe pensato che sarebbero arrivati a lanciare nei confronti suoi e del marito una fatwa, una richiesta di parere religioso che trova le sue fondamenta nei testi sacri e nella tradizione dell’islam. E che spesso si tramuta in una condanna a morte. «Siamo spaventati, io e mio moglie abbiamo molta paura, per questo chiediamo che ci portino via da qui, non siamo più al sicuro», insiste Deng Anei Awen, preoccupato anche per le condizioni della moglie, a pochi giorni dal parto.

Dopo aver ricevuto minacce pubbliche di morte dal padre della sposa, la coppia aveva chiesto l’intervento delle autorità sud sudanesi evidenziando come alla base dell’opposizione alla loro unione, oltre alla religione, ci fosse il razzismo tribale verso Deng. Speravano che denunciando le violazioni dei diritti perpetrate dai parenti di Eshan potessero ricevere una qualunque tutela. Ma le loro aspettative si sono scontrate con gli interessi di un governo che per i casi non rilevanti evita di iniziare dispute con il Paese confinante da cui si è separato nel 2011 con un referendum sull’indipendenza dopo una guerra civile durata vent’anni.

«Siamo costantemente in pericolo, i miei parenti possono inviare chiunque in qualsiasi momento a uccidere me e mio marito», è lo sfogo della giovane donna al nono mese di gravidanza. «Sappiamo che i confini in Africa sono aperti, e che possono arrivare a Juba facilmente. Abbiamo chiesto il supporto di varie organizzazioni per i diritti umani, affinché intervengano per portarci in un qualsiasi Paese disposto a darci asilo affinché le nostre vite siano salve, ma finora nessuno è stato in grado di aiutarci», conclude con amarezza.

La storia di Eshan e Deng ha suscitato una discussione molto animata sui social in entrambi i Paesi di origine dei protagonisti. In Sudan si applica il precetto della Sharia in base al quale la donna musulmana non può sposare un uomo appartenente ad altre religioni, o un miscredente, a pena di nullità del matrimonio, salvo il caso in cui l’uomo sia disposto a sottoscrivere la dichiarazione di fede islamica. Sia il Sudan che il Sud Sudan sono società patriarcali conservatrici in cui le decisioni sono prese principalmente dai padri per conto delle loro figlie. In un paio di video su Facebook, quello di Eshan ha recitato i versi del Corano sull’obbedienza dovuta dai «credenti» ai loro genitori, sottolineando la norma secondo la quale una giovane donna non può sposarsi a un uomo senza il benestare del suo «guardiano».

Per chi trasgredisce i precetti della legge islamica le conseguenze possono essere letali. Come dimostra il caso di Meriam Ibrahim, sudanese figlia di un musulmano ma cresciuta nel culto della madre cristiana, condannata a morte per apostasia dopo aver sposato un cristiano del Sud Sudan. Meriam, grazie a una campagna internazionale sostenuta anche da Avvenire, è tornata libera. Eshan e Deng attendono fiduciosi che la loro storia susciti la stessa ondata di indignazione e di mobilitazione.

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