mercoledì 20 ottobre 2021
L’Onu già da tempo parla di catastrofe umanitaria e di milioni di persone a rischio in quello che è il secondo Paese più popoloso d’Africa con 109 milioni di abitanti
Undici mesi di una guerra «invisibile»

Reuters

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Nell’era delle immagini, un conflitto o una carestia «esistono» comunque anche se non le vediamo? Assuefatto a tutto, il mondo può avere un sussulto per corpi che non può fissare, per diritti violati difficili da denunciare, per terre stuprate che deve solo immaginare? È la guerra più nascosta degli ultimi anni, quella in corso in Etiopia, un conflitto che non solo non è finito, come il premier Abiy Ahmed aveva annunciato mesi fa, ma che anzi si è già allargato dalla regione «ribelle» del Tigrai a quelle confinanti dell’Amhara e dell’Afar. Orfani di un qualsiasi supporto fotografico, di un filmato che ci restituisca la cruda realtà dei fatti, siamo costretti ad aspettare testimonianze che non arrivano e non possono arrivare, inghiottite da un buco nero comunicativo che ha tagliato anche ogni possibile voce e denuncia.

L’Onu già da tempo parla di catastrofe umanitaria e di milioni di persone a rischio in quello che è il secondo Paese più popoloso d’Africa con 109 milioni di abitanti. Non abbiamo, o quasi, fotogrammi, impossibile parlare direttamente con i civili intrappolati sulla linea del fronte, considerata la voluta interruzione delle linee telefoniche e di Internet. Di più: il no del governo etiope all’apertura di corridoi umanitari per gli aiuti impedisce qualsiasi contatto ravvicinato con chi soffre le conseguenze della guerra da ormai undici mesi. I pochi racconti che riescono a filtrare confermano ancora la presenza di truppe eritree sul territorio a dar manforte agli ex nemici etiopi, circostanza che Addis Abeba ha sempre smentito. Impossibilitata all’accesso, la comunità internazionale, a partire dagli Stati Uniti, minaccia sanzioni, ma di più non riesce o non vuole fare. Tanto la guerra, quella guerra, nessuno la vede, nessuno la sente «propria».

Secondo il numero uno dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, nel Tigrai oltre il 90 per cento della popolazione ha bisogno di aiuti e 400mila persone sono già in situazione di grave carestia. «Stiamo vedendo situazioni di malnutrizione acuta – ha ammonito –, su livelli simili a quelli del 2011 in Somalia», quando morirono 260mila persone. Tedros ha confermato che da luglio il Tigrai non ha visto l’arrivo di dispositivi medici o di farmaci. «Solo una piccola parte delle strutture sanitarie del Tigrai resta operativa a causa della mancanza di carburante e forniture», ha sottolineato il capo dell’Oms. Lo scorso marzo soltanto un’inchiesta realizzata con foto satellitari e video dalla Bbc, aiutata da un gruppo di specialisti, poté confermare la veridicità di uno dei tanti massacri compiuti anche contro i civili dall’esercito etiope nel Tigrai. I cadaveri delle vittime venivano semplicemente gettati da un dirupo, non lontano dalla cittadina di Mahbere Dego: sulle uniformi dei soldati lo stemma della Endf, la forza di difesa nazionale etiope.

Non c’è niente che possa mai piacere in quelle immagini, non è un film e non c’è alcuna dignità preservata nei corpi di quegli esseri umani. Eppure avervi accesso e non distogliere lo sguardo può servire a restituisci un frammento di verità, a illuminare un atroce anfratto, nel pieno del cuore di tenebra di un conflitto che fa ripiombare l’Africa ai suoi anni più bui.

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