lunedì 10 ottobre 2011
Lo ha detto il primo ministro egiziano, Essam Sharaf, in risposta a sollecitazioni rivoltegli su vari siti Internet e in articoli di quotidiani egiziani in seguito ai sanguinosi scontri tra esercito e copti. Mentre il segretario dell'Onu invita il popolo egiziano a rimanere unito. Disordini ai funerali, ieri pomeriggio, dei 36 copti uccisi domenica negli scontri con la polizia.
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«Le nostre dimissioni sono nelle mani del Consiglio Supremo delle Forze Armate, che può accettarle in qualsiasi momento»: lo ha detto il primo ministro egiziano, Essam Sharaf, in risposta a sollecitazioni rivoltegli oggi su vari siti Internet e in articoli di quotidiani egiziani in seguito ai sanguinosi scontri tra esercito e copti. Il Consiglio dei ministri egiziano, riunitosi ieri pomeriggio d'urgenza per far fronte alle violenze tra cristiani copti e militari, ha presentato un progetto di legge per «legalizzare la situazione dei luoghi di culto senza licenza». Lo ha riferito l'agenzia ufficiale Mena. La regolarizzazione delle chiese cristiane in Egitto era una delle principali rivendicazioni dei copti che domenica hanno manifestato di fronte alla sede della tv di stato, dopo che l'incendio di una chiesa ad Edfu, nel sud del Paese. Il segretario generale dell'Onu Ban ki-Moon ha rivolto un appello al popolo egiziano affinché rimanga unito e porti avanti lo spirito di cambiamento che ha animato gli storici eventi di piazza Tahrir, al Cairo.  «Le autorità di transizione devono garantire la protezione dei diritti umani e le libertà civili delle persone appartenenti a tutte le minoranze», ha commentato Ban dopo i tragici eventi avvenuti nelle ultime ore nel Paese arabo. Il segretario generale ha rinnovato il suo invito a evitare ogni violenza, sottolineando la necessità di «proseguire la strada verso libere elezioni e una transizione pacifica e giusta verso la democrazia, nel rispetto delle aspirazioni del popolo egiziano». I FUNERALI DEI COPTI di Barbara UgliettiSono proseguiti anche ieri gli scontri al Cairo tra attivisti copti e forze di sicurezza. Circa tremila manifestanti sono scesi di nuovo in piazza nei pressi dell’ospedale copto della città, dove sono state portate la salme dei cristiani uccisi negli incidenti di domenica – 36 persone secondo gli ultimi bilanci – e dove sono stati ricoverati molti dei 237 feriti. Il corteo di protesta si è poi spostato verso la cattedrale di Abbasiya, dove nel pomeriggio si sono tenuti i funerali di alcune delle vittime. La situazione resta però molto confusa ed è difficile individuare le dinamiche che stanno governando questa protesta, la più violenta dalla rivolta scoppiata in gennaio contro l’ex presidente Mubarak, che ha portato alle sue dimissioni l’11 febbraio. Ancora non è stata fatta chiarezza su quanto accaduto domenica, quando migliaia di copti (duemila secondo alcune fonti, diecimila per altre) si sono riuniti vicino al palazzo della Tv di Stato per protestare contro la demolizione, a fine settembre, di una chiesa nella provincia di Aswan (nel sud del Paese). Secondo la Tv di Stato i manifestanti hanno cominciato a lanciare sassi contro i soldati dispiegati nell’aerea, che hanno poi reagito. Secondo gli attivisti, invece, «ignoti» hanno cominciato a sparare sui dimostranti, e poi due blindati hanno puntato sulla folla, facendo una strage. Che i blindati abbiano caricato la folla è un fatto: le immagini lo dimostrano. Altrettanto certa l’esasperazione dei cristiani. La comunità copta, otto milioni di persone, cioè il 10% della popolazione egiziana, ha sempre avuto vita difficile nel Paese, ma Mubarak, con pugno di ferro, riusciva a contenere le tensioni settarie. Dalla sua caduta, le violenze sono esplose e i cristiani sono finiti sempre di più nel mirino dei fondamentalisti islamici – i salafiti – che puntano a creare un Paese musulmano. Senza incontrate troppa resistenza da parte del Supremo Consiglio delle Forze Armate, la giunta militare che ha preso il potere dopo la cacciata del rais; e sotto gli occhi impotenti del fragile governo ad interim del premier Essam Sharaf. La Chiesa copta d’Egitto ha detto ieri che «non è stata presa alcuna azione concreta per risolvere i problemi dei cristiani del Paese» e che «gli autori delle violenze contro di noi non sono mai stati chiamati a rispondere delle loro azioni». Ma Shenuda III, che guida la Chiesa copta ortodossa, preoccupato forse di non incendiare troppo gli animi, ha denunciato la presenza di «infiltrati» che avrebbero dato il via agli scontri con le forze di governo. «La fede cristiana denuncia la violenza ha detto Shenuda III –. Alcuni stranieri si sono infiltrati e hanno commesso torti per i quali i copti sono stati accusati». Paradossalmente anche i salafiti della Jamaa Islamiya hanno detto al stessa cosa, puntando il dito contro forze «pagate dall’estero». Decisamente più provocatoria la posizione dei Fratelli musulmani che hanno chiesto a papa Shenuda di «chiedere scusa ufficialmente per aver aggredito dei soldati egiziani». Più moderato l’intervento di Ahmed al-Tayyeb, grande imam dell’università islamica di al-Azhar, la più alta istituzione dell’islam sunnita, che ha rivolto un appello ai leader musulmani e cristiani affinché si riuniscano per un vertice di emergenza.Di «complotto», ha parlato anche il premier Sharaf: «La nazione è in pericolo in seguito a questi eventi che ci hanno riportando indietro», ha detto in un discorso alla tv di Stato. Quanto alla giunta militare, ha annunciato un’inchiesta sull’accaduto e l’arresto di una quindicina di persone; ha ribadito che manterrà il potere finché non saranno create le condizioni per essere avvicendata da autorità civili, «malgrado i tentativi di distruggere i pilastri dello Stato e seminare il caos per impedire la transizione»; e, forse, nel tentativo, il più sbagliato, di placare gli animi, ha annunciato l’impiccagione, domenica, di Mohammed Ahmed Hussein, uno dei responsabili di un attacco nel 2010 contro una chiesa copta che costò la vita a sei persone.
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