
Manifestazioni pro-Khamenei in Iran dopo l'offensiva israeliana - Ansa
Nel bazar di Teheran non c’è nessuna fretta: si cammina, si compra, si vende, si discute mentre si beve il tè. La capitale iraniana, colpita dai raid israeliani di venerdì, si sta riprendendo dallo choc, ma la popolazione sta aspettando la seconda risposta notturna agli attacchi che hanno umiliato non solo il governo, ma un’intera nazione. «Siamo novanta milioni, i sionisti sono dieci volte inferiori a noi, come è possibile che un popolo così piccolo abbia umiliato la nostra cultura? Siamo gli eredi di uno degli imperi più sviluppati che la regione abbia conosciuto, ma ieri abbiamo raggiunto il punto più basso della nostra storia», ci dice Firouz Monshipouri, giovane studente al primo anno di storia all’università di Teheran.
A mano a mano che passano le ore, però, alle grida di rabbia e di vendetta si sostituiscono sempre più le domande e la consapevolezza di un futuro sempre più incerto e difficile. Le manifestazioni di protesta verso Israele e di appoggio al governo vedono la partecipazione sempre più esigua di giovani, che preferiscono andare al cinema, fare attività sportiva o semplicemente passeggiare. La politica manipolata dal governo, incluso l’odio per Israele, non fa parte del “pacchetto” di impegni in cui le nuove generazioni amano imbarcarsi.
«Siamo scossi, naturalmente, ma vorremmo vivere in una società meno conflittuale, più pacifica. Anche con l’entità sionista» confida un ragazzo con la maglietta del Persepolis, la squadra più blasonata del campionato di calcio iraniano.
Sebbene non vi siano ancora le file che possano far pensare ad una fuga di massa, ai banchetti di cambiavalute, il cambio con le lire turche è aumentato anche del 20% dopo il 13 giugno. «Io rimarrò in Iran, a combattere, se serve. Ma nel frattempo manderò la mia famiglia in Turchia, dove abbiamo parenti pronti ad accoglierla» spiega un avventore che ha appena cambiato i suoi risparmi e ha già prenotato il passaggio per Erzurum.
La crisi economica, la repressione degli ayatollah, le condizioni di vita, hanno già costretto circa tre milioni di iraniani a fuggire dal loro Paese e molti di essi, pur essendo costernati per ciò che sta accadendo ai loro connazionali, agli amici e ai parenti rimasti in Iran, guardano con occhi differenti ciò che sta avvenendo. «Con il rapporto sul programma nucleare, la Aiea ha semplicemente scoperto il vaso di Pandora» afferma il sito del Pmoi, l’Organizzazione popolare dei Mujaheddin dell’Iran che fa parte del Consiglio nazionale della resistenza iraniana presieduto da Maryam Rajavi.
Nell’interno del Paese, invece, l’opposizione è oggi più che mai divisa sull’atteggiamento da tenere. In una corrispondenza su un social media c’è chi attribuisce la colpa dei raid israeliani allo stesso governo iraniano, reo di aver mentito troppo a lungo sul reale motivo del programma nucleare e c’è chi spera che il colpo ricevuto sia lo scossone che farà crollare lo Stato islamico. Altri, invece, ritengono dovere degli iraniani scendere in campo per difendere l’onore di una nazione offesa sia da Israele che dal proprio governo islamico. Molti, specialmente a sinistra, sono più confusi: c’è chi comprende che l’attacco israeliano potrebbe dare scacco matto ad un regime tanto odiato dai comunisti, ma al tempo stesso non vuole che Israele ne tragga vantaggio.
Un trotzkista, imprigionato e torturato dalla Vevak (l’intelligence iraniana) per le sue idee, è più pragmatico: «Non importa chi abbatta il nemico interno: una volta rovesciato il regime, potremo a nostra volta concentrarci sui nemici esterni». L’attacco al centro nucleare di Isfahan compiuto nella serata di venerdì, a più di dodici ore di distanza dal primo attacco, ha allarmato ancora di più gli iraniani. Sebbene i sistemi di difesa abbiano funzionato meglio che nella mattinata, i caccia israeliani sono comunque riusciti a colpire e distruggere all’esterno l’impianto di riconversione dell’uranio arricchito. «Questo secondo attacco denota tutta la debolezza del nostro apparato difensivo: sembra che i sionisti possano andare e venire, colpire e distruggere qualunque cosa vogliano nel nostro Paese» lamenta un veterano della guerra Iran-Iraq.
Nel frattempo, nelle moschee di tutto il Paese, si susseguono proclami contro Israele e contro gli Stati Uniti. La minuscola comunità ebraica iraniana (tra 10mila e 20mila persone) non è stata sino ad ora bersaglio di rimostranze né da parte dei dimostranti, né da parte del governo, che ha comunque sempre mostrato la volontà di proteggere gli ebrei iraniani, se non altro per mostrare al mondo che le accuse di antisemitismo rivolte a Teheran non hanno fondamento. In un rapporto pubblicato il 6 giugno, sette giorni prima dei raid israeliani, la comunità ebraica di Teheran ha dichiarato di «svolgere i propri riti religiosi in piena libertà e dignità, come in passato, in condizioni di sicurezza pubblica» e che «gli ebrei dell’Iran vivono in pace con le altre comunità». Il rapporto, che si apre con un elogio all’ayatollah Khomeini, stigmatizza la politica sionista, un modo, secondo David Menashri, direttore dell’Alliance Center for Iranian Studies dell’università di Tel Aviv, di dimostrare la propria lealtà al regime iraniano mantenendo in cambio l’autonomia e le proprie tradizioni.