martedì 20 luglio 2010
I dissidenti in Spagna: in cella sapevamo di essere più liberi dei nostri guardiani. Dopo la scarcerazione, gli oppositori raccontano l'orrore dei sette anni trascorsi dietro le sbarre. «Non vogliamo vendetta, perdoniamo chi ci ha sepolti vivi. Ora lottiamo per chi resta prigioniero».
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Dieci ore di volo – tanto dura il viaggio dall’Avana a Madrid – per conquistare la libertà. Dovrebbe toccare oggi ad altri nove dissidenti cubani. L’arrivo di Jorge Luis Gonzales, Manuel Ubals, Ricardo Silva, Alfredo Pulido, Arturo Perez, Blas Giraldo, José Ubaldo, Jesus Mustafà e Antonio Diaz è previsto per questo pomeriggio, secondo quanto annunciato dal ministro degli Esteri spagnolo Moratinos. Anche se, fino all’ultimo, il “trasferimento” – come lo chiamano le autorità castriste – potrebbe essere rinviato. Se tutto procederà secondo i piani, però, dovrebbe salire a venti su 52 – arrestati durante la “Primavera Negra” del 2003 – il numero degli oppositori scarcerati e ospitati in Spagna. In seguito alla mediazione della Chiesa cattolica. Un evento storico: è la più grande liberazione di massa dal 1998 quando, in occasione della visita del Papa Giovanni Paolo II, furono rilasciati 101 detenuti politici. Il segretario Onu Ban Ki-moon ha espresso, ieri, soddisfazione per la decisione dell’Avana. Anche se – ha sottolineato – la speranza che «Cuba prenda ulteriori misure di riconciliazione». Lo stesso che sperano i “liberati”. Li contattiamo al telefono, mentre riposano, insieme alle famiglie che li hanno accompagnati in Europa, nell’alloggio di Vallecas, alla periferia di Madrid. «Da quando sono uscito dal carcere, mia figlia Daniela non mi lascia un minuto – racconta Normando Hernandez, giornalista indipendente condannato dal regime a 25 anni di reclusione –. Anche ora, mentre parlo, sta qui, abbracciata a me». Quando l’hanno arrestato, la bambina aveva sette mesi. Ha conosciuto il padre durante le visite familiari. Poche, perché è stato rinchiuso, quasi sempre, in prigioni lontane da Camaguey, sua città di residenza. «Una volta, sono stato in cella di rigore per 103 giorni. Mia moglie e la piccola viaggiavano per 700 chilometri per vedermi e, spesso, le autorità annullavano l’incontro. Mia figlia è cresciuta sui bus, tra spostamenti interminabili», continua Normando. RESTARE UOMINI, NONOSTANTE TUTTO«Non ho visto mia figlia per un anno. Quando mia moglie mi ha portato una foto non l’ho guardata. Non volevo che mi vedesse piangere. La separazione era la cosa più tremenda – afferma Omar Rodriguez Saludes, anche lui giornalista, condannato a 27 anni –. Più dello stare in 90 in una cella di 30 metri. Più del caldo soffocante, dato che i ventilatori erano proibiti e il tetto, di lamiera, rendeva la prigione una fornace. Più degli insulti e dei pestaggi delle guardie».Un inferno. Che il giornalista e corrispondente di “Reporters Sans Frontiers”, Ricardo Gonzales, condannato a vent’anni, ha trasposto in parole, nel libro “Hombre sin rostro”. «L’ho scritto clandestinamente nei primi mesi di prigione e, nel dicembre 2003, l’ho fatto uscire in segreto e pubblicare. Per punizione, mi hanno messo in cella coi delinquenti più violenti che mi picchiavano selvaggiamente. Ho dovuto fare uno sciopero della fame per convincerli a spostarmi». Nel tempo immobile del carcere, scrivere e leggere era un modo per restare vivi. «Il libro “Cuore” di De Amicis era il mio compagno inseparabile. L’ho letto tante volte che alla fine si è rotto», dice ridendo Normando. Le poche notizie filtravano attraverso la censurata tv o i giornali del governo. «Arrivava anche qualche rivista straniera, ma stranamente, mancavano le pagine su Cuba», aggiunge Omar. «Oltre a leggere, pregavo. Tanto, ogni giorno. La fede in Dio mi ha dato la forza di restare vivo. Insieme all’appoggio della mia famiglia e il sapere che tanti, fuori, lottavano per noi», confessa Normando. Parla veloce. Le visite a centellinate l’hanno abituato a dire tanto in poco tempo. Il suo tono tradisce la commozione. «Non dimenticherò mai il momento in cui sono salito sull’aereo per Madrid e i passeggeri mi hanno applaudito. Sono andato avanti grazie alla solidarietà internazionale. E alla certezza di avere ragione – dice Omar –. Anche mentre stavo murato in un sotterraneo, sapevo di essere più libero dei miei guardiani. Erano loro i veri prigionieri». TEMPO DI RICONCILIAZIONEStupisce che, dopo sette anni di sofferenze, i dissidenti non abbiano desideri di vendetta. In Spagna sono arrivati vestiti di bianco, simbolo di pace. «Perdoniamo chi ci ha incarcerato, isolato, umiliato – dicono –. Non recriminiamo. Non vogliamo che nessuno soffra ciò che abbiamo sofferto noi. Per Cuba, è l’ora della riconciliazione. È questa l’unica strada per arrivare a una vera svolta. Per realizzare quella democrazia per cui non ci stanchiamo di combattere». «La nostra scarcerazione può essere l’inizio di un cambio», conclude Normando. Gli fa eco Ricardo: «Hanno contribuito molti fattori: il sacrificio di Zapata e Farinas, il prezioso lavoro della Chiesa, il coraggio delle Damas de Blanco, la crisi economica. Chissà dove porterà». Su una cosa, però, gli scarcerati concordano: è prematuro che, a settembre, l’Ue ritiri la “Posizione comune”, documento di condanna al castrismo. Anche quando tutti i 52 saranno usciti, dietro le sbarre resteranno 115 prigionieri politici. «Noi lotteremo per loro», dicono gli scarcerati. Che ancora non si considerano liberi ma rifugiati politici. «Sono passato dal carcere all’aereo. Ho dovuto lasciare la mia terra – afferma Ricardo, mentre gli altri gli danno man forte –. Sono un esule non un emigrante. Per questo, voglio che la Spagna ora riconosca il mio status di rifugiato».
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