mercoledì 28 luglio 2021
Il racconto di un infermiere siriano: «Portarono un uomo incappucciato, era abuna Paolo. La mattina dopo lo presero: capirà cos'è la libertà, dissero. Poi non so cosa sia successo»
Padre Paolo Dall'Oglio in una immagine di repertorio. È scomparso in Siria il 29 luglio 2013

Padre Paolo Dall'Oglio in una immagine di repertorio. È scomparso in Siria il 29 luglio 2013 - Ansa

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Una memoria che, di anno in anno, alimenta iniziative di dialogo interreligioso quella di padre Dall’Oglio rapito il 29 luglio del 2013 a Raqqa – in rivolta contro il regime e che stava per essere egemonizzata dal nascente Stato islamico – dove si era recato per una «mediazione». La testimonianza qui di seguito, dopo anni di silenzio, aggiunge importanti notizie sulle prime ore del rapimento. Intanto si moltiplicano le iniziative nel solco dell’insegnamento del gesuita: questa mattina al Centro «Fonte di Ismaele» di Roma (in via Chiovenda) sarà Francesca Dall’Oglio, assieme a Riccardo Cristiano, a spiegare a minori non accompagnati ospiti della struttura di accoglienza, la figura del fratello. Domani sera alle 21.15 a Verona (Centro islamico, via Bencivenga - Biondani 18) Combonifem, Nigrizia, Consiglio islamico di Verona organizzano una serata di riflessione a partire da frasi di padre Paolo Dall’Oglio e della sua esperienza nel monastero di Mar Musa in Siria.

Lui mi ha detto che posso fare il suo nome, ma preferisco citare solo le sue iniziali: A.K. Quel che conta è il racconto di questo rifugiato siriano, musulmano osservante, fuggito nel 2015 da Raqqa. Dopo un bombardamento si è messo in marcia, verso la rotta balcanica. Il viaggio che lo ha portato in Europa è durato quasi due mesi: arrivato in Germania ha fatto la sua scelta di ricollocamento.

Mi ha detto molto di quel viaggio: «I volontari? Non sai quanto siano stati importanti per me. Non solo per il cibo, ma per la forza che ti danno, è incredibile quanto conti che qualcuno ti faccia capire che la tua vita ha un valore. Quello che loro hanno fatto per noi non lo ha fatto nessun Paese musulmano. E così io ora faccio il volontario, per la Croce Rossa».

Questo mi ha interessato: con un caro amico siriano avevamo deciso di andare a sentire cosa volesse dirci su Paolo, ma i miei dubbi non li nascondo. Tanti si presentano dicendo di sapere di Paolo quel che non sanno, con molte finalità. Ma lui mi ha sorpreso perché ha subito messo in chiaro di non sapere il cognome di Paolo. «Lo chiamavano tutti abuna – padre – Paolo. E ci piaceva quel che diceva».

Il racconto: «Ero infermiere a Raqqa, e così conobbi combattenti di tutti i gruppi siriani, soprattutto quelli più attivi, islamisti o attivisti di altre idee. Erano tutti dei nostri, come noi, espressioni del popolo, impegnati nella nostra lotta contro il regime. Il Daesh no. Quando il gruppo si è rafforzato, ci ha chiesto di giuragli fedeltà, ma noi ci siamo rifiutati. Come infermieri non potevamo giurare fedeltà a nessuno, ancor meno a questi stranieri che tutta Raqqa sapeva infiltrati da tanti servizi segreti. Così una sera mi hanno arrestato perché, secondo loro, negandogli fedeltà negavo aiuto ai fratelli. Mi hanno portato in prigione, nel quartier generale».

Può darsi che per la compiacenza di qualcuno che conosceva o che aveva aiutato ed era passato con il Daesh, l’infermiere non finì negli stanzoni, ma in una piccola camera attigua. Poi portarono un altro prigioniero, incappucciato. Si tolse il cappuccio. «Era Paolo. I carcerieri ci proibirono di parlarci, ma Paolo mi ha chiesto subito dove fossimo. Glielo dissi, e lui conservò un’aria tranquilla». Qualche altra parola ed arrivò un miliziano che si piantò tra loro per interrompere quella comunicazione, «Allora ho preso a pensare a me, ero terrorizzato che mi consegnassero a quelli del regime».

Che giorno era? «Non lo so, era il 2013, durante il Ramadan». E in effetti Paolo fu sequestrato proprio durante il Ramadan.
«La mattina seguente il capo della sicurezza del Daesh, Abu Hamza Riadiyyat, ha prelevato padre Paolo dicendo con tono di scherno, malvagio, che voleva fargli capire cosa fosse la libertà di cui gli occidentali tanto parlano. Io l’ho percepita come una sentenza, ma ora penso che agire così non risponda al loro metodo. Il Daesh filmava tutte le sue esecuzioni. Comunque non so cosa sia successo dopo, ma ho sentito che lo avrebbero condannato perché lavorava nell’informazione».

Appena fu rapito si disse che i capi del Daesh erano irritati per le accuse di Paolo Dall’Oglio sui loro massacri di curdi. «Mi rilasciarono poco dopo, dicendo di non far parola a nessuno di ciò che avevo visto. Ma da tempo voglio dire che Paolo lo ha sequestrato il Daesh, benché loro ancora lo neghino. Era era un vero amico del popolo siriano: non lo possiamo dimenticare».

Lo stavo per salutare quando l’infermiere ha aggiunto: «Sai, sui profughi in Europa ho visto che da noi si scrive tanto dei maltrattamenti, che ci sono, ma non del bene che viene fatto, da tanti. Questo mettere i popoli contro non va».

Non so molto di lui, ma ho pensato che il suo tono a Paolo sarebbe piaciuto: lui non faceva gli esami del sangue al prossimo, ma diceva «umilmente, fraternamente ci opporremo agli steccati delle appartenenze bloccate».

Chi è / Il gesuita del dialogo

Paolo Dall’Oglio, 67 anni, gesuita incardinato nella Chiesa siriana, è scomparso a Raqqa. Espulso dopo 30 anni dal regime, nel lontano 1982 aveva avviato la ristrutturazione del monastero di Mar Musa, dove fondò una comunità monastica con la vocazione all’accoglienza e al dialogo con l’islam. Nonostante i numerosi appelli e l’interessamento del Dipartimento di Stato Usa che nel 2019 promise una ricompensa a chi forniva notizie, della sua sorte non si è saputo più nulla.

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