venerdì 8 luglio 2022
A meno di un mese dalla condanna a morte di due fratelli, Ashfaq Masih è stato denunciato da tre musulmani e ha trascorso cinque anni in carcere, uscendo soltanto per i funerali della madre nel 2019
Una manifestazione contro le persecuzioni dei cristiani a Quetta in Pakistan

Una manifestazione contro le persecuzioni dei cristiani a Quetta in Pakistan - Ansa

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A meno di un mese dalla condanna a morte di due fratelli, un altro cristiano è stato condannato in Pakistan alla stessa pena per il reato di blasfemia. Il tribunale di prima istanza di Lahore ha riconosciuto il massimo della pena prevista – di fatto obbligatoria per chi si macchi di blasfemia – per Ashfaq Masih che nel giugno 2017 avrebbe, secondo il suo principale accusatore, sostenuto che Gesù Cristo è l’unico profeta. Inutili le proteste di innocenza del giovane: «Sono innocente e sono stato accusato ingiustamente perché qualcuno vuole distruggere la mia attività».

L’accenno è al musulmano Muhammad Naveed, che aveva aperto un’officina per la riparazione delle motociclette di fronte a quella di Ashfaq Masih, da tempo bene avviata e che poi, vedendo che gli affari non decollavano e dopo alcuni screzi ha deciso di passare all’azione, denunciando il rivale per presunta calunnia verso il profeta Maometto. Utilizzando per questo la testimonianza di un cliente che con il meccanico cristiano aveva avuto un diverbio per il pagamento per una riparazione e del proprietario dell’officina che da tempo premeva perché Ashfaq la liberasse.

L’accusa di blasfemia ha fatto coincidere l’interesse dei tre musulmani ma ha trasformato la vita del cristiano in un incubo. Denunciato alla polizia che ha per obbligo legale avviato un’indagine nei suoi confronti e lo ha messo agli arresti, il presunto blasfemo ha trascorso cinque anni nella solitudine e nella paura di ritorsioni uscendo dal carcere solo in occasione dei funerali della madre nel 2019. La moglie e la figlia sono state costrette a lasciare la città e a nascondersi altrove.

«Scioccante» ha definito il fratello maggiore, Mehmood, la decisione della corte che, testimonia, non si è nemmeno riunita in aula prima che la sentenza venisse letta dal giudice, Khalid Wazir. «Il giudizio improvviso mi ha sconvolto», ha sottolineato il fratello, come ha sconvolto tutti i nostri familiari e quanti si sono fatti avanti per consolarci.

Lo svolgimento della vicenda è insieme abituale e eccezionale. Purtroppo non sono eccezionali gli arresti senza appello per accuse non provate purché avanzate da musulmani con il via libera formale di un imam locale, così come non è eccezionale una sentenza capitale del tribunale di primo livello, quasi sempre, capovolta in appello. Tuttavia, in questo caso è inusuale la modalità di conclusione del processo e ancor più grave che segua di soli 29 giorni la doppia condanna - questa emessa in appello l’8 giugno dall’Alta corte di Rawalpindi - per i fratelli, pure cristiani, Amoon e Qaiser Ayub, ponendoli di fatto nelle mani della Corte suprema per il giudizio definitivo.

«Sotto la pressione dei gruppi islamisti, i giudici dei tribunali di più basso livello esitano sempre a liberare gli accusati e preferiscono salvare la pelle scaricando il fardello sul tribunali superiori - precisa l’attivista cristiano per i diritti legali delle minoranza, Nasir Saeed -. Il caso di Ashfaq era molto chiaro: il proprietario della sua officina lo voleva cacciare e il suo rivale in affari lo ha coinvolto in un caso giudiziario per la falsa accusa di blasfemia, correndo il rischio di essere a sua volta accusato di falso. Comunque Ashfaq è innocente e ha già trascorso cinque anni in prigione per un crimine mai commesso».

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