mercoledì 20 gennaio 2010
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Per loro Wyclef Jean, un’icona della musica rap nato proprio da queste parti, è semplicemente un traditore. I ritmi che escono berciando da giganteschi apparecchi tenuti ostentatatmente in grembo sono molto più truci della musica ormai globalizzata dell’eroe nazionale della musica haitiana. Ma Cité Soleil ha fatto di ogni estremo la misura di tutte le cose. Ti accorgi, quando varchi i confini di questo grande slum di Port-au-Prince, di qualcosa di impalpabile eppure onnipresente: l’ostilità nei confronti dell’uomo bianco, che altrove nella capitale pur devastata dal terremoto non avverti. Un’ostilità fatta di sguardi, di indifferenze ostentate, di brutale segnatura del territorio, perché quello che conta a Cité Soleil sono le linee di demarcazione fra un isolato e l’altro, fra un incrocio e l’altro, in uno smisurato Risiko che coinvolge almeno 36 diverse gang.«Eppure – spiega con vena fruediana Lotaire Crocodile, vicecomandante della polizia haitiana – questi ragazzi sono tutti orfani. Orfani del deposto presidente Aristide, orfani della figura del padre, orfani del mito dei tonton macoutes, la milizia che spadroneggiava impunita ai tempi di Duvalier».Nessuno ha mai fatto un censimento a Cité Soleil. Nata negli anni Ottanta come insediamento abitativo per gli addetti di un’industria che di fatto non è mai nata, ha finito per ospitare trecentomila anime, in prevalenza diseredati, analfabeti, antenati degli squatters europei, con un livello di occupazione pari a zero e un rischio sanitario elevatissimo. Si sostiene – ma la ragione è dubbia – che l’Aids abbia cominciato a manifestarsi in forma endemica proprio qui, in questo bacino di promiscuità, di ignoranza, di superstizione, dove il mito di ogni ragazzino è l’appartenenza a una delle gang e la consolazione degli adulti (anziani ce n’è pochi, visto che la vita media non arriva a cinquant’anni) è un sincretismo che mescola la religione cristiana al voodoo, la fede al gallo sgozzato, il messaggio evangelico al Baron Samedi. Attraversiamo piano la Place de la Fierté, dove in questi giorni si assiepano migliaia di haitiani scampati al terremoto. Centinaia di occhi segnano il nostro passaggio, e se non fosse per la delicata diplomazia della nostra guida ci sarebbe di che tremare. «Ci ho messo anni a garantirmi una sorta di immunità di passaggio per me e per i miei ospiti», dice fiero come la sua piazza Templar, il ragazzo ventitreenne che mi garantisce di uscire vivo da questa città dolente. Ma non illudiamoci: Cité Soleil è una polveriera, lo era prima e a maggior ragione lo è oggi, dopo che i seimila detenuti fuggiti dal carcere crollato durante il sisma hanno fatto ritorno, per così dire, a casa. Un ritorno tuttavia che non per tutti è stato un sollievo. Non per Blade, capo riconosciuto di una delle gang più temibili, fatto letteralmente a pezzi appena tornato nel grembo violento della baraccopoli. «Ce l’hanno fatto trovare smembrato davanti al posto di polizia – racconta Crocodile –. Il che vuol dire che sta per cominciare un’altra guerra fra le gang, come quella di otto anni fa». All’epoca nessuno se la sentiva di mettere piede qui, tranne i brasiliani dell’Onu, quelli della missione Minustah che tuttora ha compiti di polizia a Port-au-Prince. Le Nazioni Unite, a dispetto del loro compito, non solo particolarmente amate, non solo a Cité Soleil, ma in tutta Haiti. «Se si facesse un referendum per decidere se farli restare o lasciarli partire – ha detto recentemente l’evanescente presidente haitiano René Préval – il popolo voterebbe per mandare via i caschi blu dell’Onu» La quale comunque proprio a Cité Soleil ha pagato prezzi elevati in termini di vite umane nel corso degli ultimi anni. Una delle quali poteva essere quella di padre Gianfranco Lovera, sacerdote di Saluzzo, direttore dell’ospedale St Camille, brutalmente rapito in pieno giorno ma rapidamente rilasciato dopo il pagamento di un riscatto nelle tasche dei Tonton Macoutes di Cité Soleil. «Tutti mi hanno raccomandato di tornarmene in Italia – dice –, ma io in quel momento ho capito che era il momento di restare. proprio per quello che era successo».Perché Cité Soleil, a dispetto del vespaio in fibrillazione che in effetti è, dell’irredento falansterio di violenza, brutalità sopraffazione, ignoranza che nasconde, è anche teatro di una solidarietà elementare e contagiosa: progetti piccoli, forse, ma che hanno gambe lunghe. In questi giorni l’ong italiana Avsi ha assistito e raccolto duemila persone, in particolare bambini e donne incinte, allestendo nel grande campo di Place de la Fierté uno spicchio di tendopoli. «Normalmente – dice Fiammetta Cappellini, responsabile dell’Avsi ad Haiti – tendo a dimezzare ogni cifra che mi viene suggerita. Se mi dicono che abbiamo duemila assistiti, io dico: facciamo la metà e togliamo qualcosa, diciamo ottocento. Poi sono andata a contarli e forse erano davvero duemila. Gli abbiamo appena montato le tende, tra due giorni arriveranno sterilizzatori per l’acqua e sanitari da Santo Domingo. Un passo alla volta, senza montarsi la testa, ma quello che è certo è che anche a Cité Soleil hanno bisogno di noi».Avsi è presente in Haiti dal 1999 ed è già stata operativa in occasione dell’emergenza provocata dagli uragani del 2008. Oltre che a Cité Soleil, è presente nella baraccopoli di Martissant. Dedica da sempre un’attenzione particolare ai bambini: dalle famiglie italiane in questi anni sono arrivati fondi che garantiscono il sostegno a distanza per 600 di loro e che vengono impiegati in attività socio-educative. «Curare i piccoli significa contribuire a dare un futuro a questo Paese, abitato prevalentemente da giovani – sospira Fiammetta – . E questo vale ancora di più dopo quello che è successo. Ho sentito che in Italia si discute sull’opportunità di incentivare adozioni e affidi temporanei. Bisogna valutare con attenzione se dopo il trauma del terremoto, che magari ha comportato la perdita di un genitore o di un fratello, vale la pena ’trapiantarli’. Ogni caso è diverso dall’altro. E comunque i bambini non sono funghi: hanno relazioni, rapporti, e reciderli potrebbe essergli fatale. Forse è meglio puntare ad aiutarli qui».
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