lunedì 3 gennaio 2022
Nel Messico in guerra, l'Ezln ha costruito uno scudo sociale nelle proprie comunità. Ma ora, con la rottura della pax mafiosa tra autorità e gruppi criminali, la violenza cresce
Corteo per il massacro di Acteal dove furono uccisi 45 indigeni

Corteo per il massacro di Acteal dove furono uccisi 45 indigeni - Ansa

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«Il Chiapas è sull’orlo della guerra civile». Parola del Subcomandante Galeano, meglio noto come Subcomandante Marcos, nome che ha abbandonato nel 2014 per assumere quello di un compagno assassinato, il maestro Galeano appunto. Dietro il passamontagna, però, è sempre lui, il docente di città, Rafael Guillén Solís, “non volto” simbolo – lo ha sempre tenuto coperto – dell’Ejercito zapatista de liberación nacional (Ezln). Ventotto anni dopo l’insurrezione del movimento indigeno al grido «terra e dignità» per i nativi del Chiapas – i tre quarti della popolazione –, tenuto ai margini da un sistema latifondista semi-feudale rimasto immutato nei secoli, il conflitto dilania di nuovo lo Stato più meridionale e più povero del Messico. Da qui la preoccupazione dell’Ezln, espressa nell’ultimo comunicato ufficiale del 19 settembre scorso. E reiterata di continuo in via informale.
La situazione è grave nonostante lo “scudo sociale” che il movimento zapatista è riuscito a costruire intorno all’oltre un migliaio di comunità locali sotto il suo controllo, in base agli accordi di pace del 1997. «Entità autonome rispetto al governo da cui non accettano sussidi, il principale strumento di corruzione. Non vivono di assistenza ma grazie a progetti di autoproduzione. E sono rette da regole proprie che vietano di coltivare e commerciare droga e di trafficare migranti e impegnano gli abitanti a curare la natura. Le decisioni sono prese con un sistema collettivo e la criminalità trova poco spazio per infiltrarsi», spiega Arturo Lomelí, antropologo e ricercatore sociale dell’Università autonoma del Chiapas, tra i maggiori esperti di zapatismo. Nel resto del territorio, è stato il patto tra i principali gruppi delinquenziali – in particolare cartello di Sinaloa e Zetas – e autorità a tenere lo Stato in posizione defilata nella narcoguerra che da due decenni devasta il Paese. La “pax mafiosa” era funzionale a garantire la stabilità di uno degli snodi cruciali del traffico di droga e di migranti dal Sud del Continente. Con la scomparsa de Los Zetas e l’irruzione del cartello di Jalisco Nueva Generación, l’equilibrio criminale, però, si è incrinato. A farlo saltare del tutto, le elezioni amministrative dello scorso giugno che hanno ridefinito la mappa politica. Elemento quest’ultimo cruciale, dato che in Messico, fin dal principio, il crimine non è nato né in opposizione né in assenza delle autorità nazionali, bensì con la loro cooperazione. Ancor più in uno Stato dove il potere è in mano a proprietari terrieri e politici fedeli, abituati a utilizzare guardie armate per tenere a bada i contadini. Ora, questi gruppi paramilitari sono diventati manodopera per i narcos. Risultato, si sono moltiplicati i gruppi armati e gli attacchi nei confronti dei civili. Migliaia e migliaia di persone sono state costrette alla fuga. Questo ha determinato la nascita di formazioni di autodifesa, con il rischio di un’ulteriore escalation. «Sono un effetto dell’offensiva sferrata dalla criminalità organizzata», racconta padre Marcelo Pérez, parroco del popolo Tsotsil della chiesa di Guadalupe, a San Cristóbal, tra le figure più impegnate per la costruzione della pace nella regione. Ruolo che lo porta a vivere sotto perpetua minaccia. Uno dei suoi più stretti collaboratori, il catechista e attivista Simón Pérez, è stato assassinato a luglio. «Il killer ha confessato che poi sarebbe dovuto toccare a me. Ma non ho paura. Il sangue dei costruttori di pace non resta sterile».
Anche le comunità zapatiste sono nel mirino. Almeno cinquanta di loro – secondo Lomelí – hanno subito aggresioni. L’Ezln, però, è deciso a proseguire la sua «lotta per la vita». Una resistenza radicata in ambito locale, basata sul rafforzamento del tessuto sociale. E, per questo, spesso, invisibile. Come dimostra la scelta di non fare incontri pubblici durante il tour europeo appena terminato. A parlare è, invece, María de Jesús Patricio Martínez alias «Mary Chuy», leader del Congresso indigeno nazionale, tagliata fuori all’ultimo dalle ultime presidenziali per motivi burocratici. «Quando cresce la violenza, con i suoi progetti di morte, come ora, aumenta anche la nostra determinazione a combatterla. Senz’armi, ma con molta forza».

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