domenica 1 febbraio 2009
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Nel Paese dei "senza nonni", la Norimberga che nessuno voleva aprirà il sipario il 17 febbraio, a trent’anni esatti dalla fine del regime dei khmer rossi: quasi due milioni di persone sterminate su una popolazione di sette milioni. Fino all’ultimo i nemici giurati del processo al regime di Pol Pot proveranno a far saltare le udienze. Non vuole giustizia il governo cambogiano, guidato dall’ex khmer rosso Hun Sen e che nei palazzi del potere ha insediato molti ex combattenti maoisti. Ne farebbero a meno gli Stati Uniti, che preferirebbero non saltassero fuori documenti imbarazzanti su come gli Usa per un breve periodo sostennero i contadini comunisti che promettevano guerra ai vietnamiti, con cui gli americani avevano più di un conto in sospeso. Storce il naso anche la Cina, storica alleata dei regimi rossi, e infine la Russia che sperava di guidare a distanza il Sudest asiatico. Da anni stabilmente nelle prime dieci posizioni per il livello di corruzione rilevato da organismi internazionali indipendenti, le autorità locali tendono però a lasciar correre. Una circolare riservata ordina che ogni caso di sospetta corruzione, di clientelismo o appropriazione indebita di denaro e beni statali, prima di venire reso pubblico deve essere secretato e sottoposto alla verifica del governo. Il silenzio è pressoché garantito. Ma la corruzione prima che politica è ormai culturale. In trent’anni Phnom Penh è molto cambiata. Indugiando tra il Palazzo reale e la Pagoda d’Argento la città appare seducente e indecifrabile. Perfino i colonizzatori francesi, che alla capitale cambogiana diedero un impianto urbanistico arioso e ordinato, rispettarono l’antica scala di valori evocata dall’armonia architettonica: le punte dorate delle pagode dovevano svettare sopra le palme e queste sopra le case. Non è più così. Non a Phnom Penh, dove il mito del cemento armato fagocita quartieri ed espelle i miseri. Un’evacuazione di massa come quella pianificata ed eseguita con la violenza dai khmer rossi, che obbligando i cambogiani a tornare tra la giungla e le risaie volevano purificare la società dal contagio della modernità. Per allontanare gli straccioni adesso basta invece far salire i prezzi della terra e delle case, o far requisire poderi e spiagge abitate dai pescatori per cederli ai palazzinari in giacca di lino e passaporto estero. Dal momento in cui Pol Pot diede il via al genocidio dei suoi connazionali, la Cambogia è diventata un Paese di orfani. Il destino dei più piccoli era segnato: educati all’odio e istruiti al sadismo, «perché essi – si legge in uno delle migliaia di documenti del regime – non hanno ancora la mente contaminata dalla memoria del passato. Con i bambini è più facile iniziare dall’Anno Zero». In tutto il Paese è quasi impossibile trovare insegnanti, medici o avvocati di una certa età. Il 60% dei cambogiani non ha compiuto 20 anni e oltre un terzo della popolazione ne ha meno di 15. Gli indicatori economici nonostante tutto mirano alto: l’inflazione non supera il 6% e l’economia corre al passo di un 10% all’anno. Merito soprattutto degli investimenti internazionali. Con i proprietari dell’oro nero sempre alla ricerca di lande nuove da conquistare. Specialmente adesso che sulla produzione agricola è in corso una colossale speculazione. Il Kuwait investirà nelle risaie cambogiane 200 milioni di euro, il Qatar 546 milioni. Intanto i prezzi degli alimenti di base sono raddoppiati. Il riso ha toccato i cinquemila riel il chilo (quasi 80 centesimi di euro) condannando alla fame cinque milioni di persone: un terzo degli attuali 15 milioni di abitanti vive con meno di mezzo euro al giorno. La Cina donerà quest’anno 257 milioni di dollari «a fondo perduto». Quella giocata da Pechino è però una partita su larga scala. Vietnam, Laos e Thailandia sono già dipendenti dall’economia cinese, mancava solo Phnom Penh a ricomporre lo scacchiere dell’Indocina. La "cinesizzazione" è ad ampio raggio: nel giorno in cui è stata annunciata la nuova "donazione", la radio cambogiana ha trasmesso per 18 ore filate programmi confezionati dalle emittenti cinesi in lingua khmer, quella maggiormente parlata in Cambogia, di fatto appaltando a Pechino l’informazione e l’intrattenimento. Un esperimento di inculturazione che viene periodicamente replicato. Oggi come trent’anni fa la rabbia cova. I partiti al governo provano a convogliarla dentro a un revanscismo nazionalista che a turno prende di mira vietnamiti e thailandesi. Un risentimento che ti viene incontro affondando i passi nel fango delle periferie, lungo gli argini limacciosi del largo e torbido Mekong e tra le palafitte sbilenche dove abitano i "senza niente". È qui che la più bella delle tre capitali indocinesi si svela come un luogo dal rancore sopito. Ci sono i coltivatori di spinaci d’acqua, torturati dai reumatismi: dall’alba a sera lavorano immersi a schiena bassa e gambe nude. E le loro mogli, rassegnate a veder morire i bambini ammalati perché l’assistenza sanitaria non è gratuita e le medicine restano inaccessibili. In fondo i khmer rossi non se ne sono mai andati davvero. Quando nell’aprile del 1975 lo spietato Pol Pot prese Phnom Penh, il primo ministro Long Boret lo attese quasi trionfante. Appena i guerriglieri dalla sciarpa a piccoli quadretti bianchi e rossi entrarono nel suo ufficio, si racconta che Boret li accolse con un largo sorriso: «La guerra è finita», sospirò. Poco dopo la sua testa rotolava sul marciapiede. Da allora i khmer rossi non hanno più lasciato i posti che contano, pronti a sbianchettare il pedigree e riproporsi in veste appena più democratica. Nel Paese degli orfani la memoria è corta. E se dal 17 febbraio non verrà finalmente fatta giustizia, Pol Pot avrà vinto da morto, perché davvero le menti non saranno «contaminate dalla memoria del passato».

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