sabato 28 dicembre 2013
​Più di 100 ingressi al giorno da agosto: in tilt il sistema di accoglienza del piccolo Paese. A Harmanli in 1.500 sopravvivono in attesa del balzo a Ovest Ilaria Sesana
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«Non potevo restare. I miei bambini e mio marito sono ma­lati. Hanno bombardato la mia casa e dei miliziani isla­mici di Jabat-al-Nusra ci hanno minacciato perché non siamo musulmani. Non possiamo più tornare in Siria». Seduta a ter­ra, Madina abbraccia tre dei cinque figli, lo sguardo determinato mal­grado la stanchezza. Madina è di origine curda. Viene dal villaggio di Afrin, vicino ad Aleppo. Per fuggire ha dovuto vendere il piccolo su­permarket che gestiva e l’automobile: 2.100 dollari la cifra pattuita con i trafficanti che hanno portato la sua famiglia in Bulgaria. Il ru­more delle bombe e degli spari è ormai lontano, ma per la famiglia di Madina i problemi non sono ancora finiti: il piccolo Paese balcanico non ha le forze per accogliere dignitosamente gli oltre 9mila rifugiati – almeno 9.300 dicono i dati della sezione locale dell’Agenzia Onu (Acnur) –, per il 60 per cento siriani, che negli ultimi mesi hanno chie­sto protezione a Sofia. L’emergenza è scoppiata ad agosto, con un afflusso massiccio di uo­mini, donne e bambini in fuga dalla Siria: cento e anche più ingressi al giorno hanno mandato in tilt il sistema d’accoglienza. A fine set­tembre, i rifugiati erano già seimila: sei volte di più della capienza to­tale dei tre centri operativi sul territorio. La succursale locale dell’Ac­nur ha alzato bandiera bianca, così sono state aperte in tutta fretta nuo­ve strutture: due a Sofia (Le scuole in disuso di Voenna Rampa e Vrazh­debna), un’altra nel vecchio campo estivo di Kovatchevtsi e la quarta ad Harmanli, a 50 chilometri dal confine con la Turchia. Palazzine malconce, magazzini, edifici dal tetto sfondato e ampie spianate di cemento. Una struttura enorme, circondata da un alto muro grigio e da un pesante cancello. Così si presenta l’ex campo militare di Har­manli che accoglie circa 1.500 profughi: siriani (circa 1.200), afghani, pachistani, palestinesi e africani provenienti da diversi Paesi. L’edifi­cio, spiega il direttore, è stato aperto prima dell’avvio dei lavori di am­modernamento. E così, per oltre un mese, centinaia di persone han­no dormito nelle tende militari oppure all’interno delle grandi, geli­de, camerate interne. Per scaldarsi potevano solo accendere un fuoco o stringersi nelle vec­chie coperte ripescate in qualche magazzino dell’esercito. Troppo po­co per difendersi dal freddo umido: qui, nel tardo pomeriggio, la tem­peratura si avvicina già pericolosamente allo zero. «Siamo rimasti nel­le tende per 25 giorni, solo da una settimana ci hanno dato questa stan­za », spiega Madina. Alcuni stanzoni sono stati suddivisi in tre came­re di circa 20 metri quadrati con dei pannelli di cartongesso: in ogni stanza dodici letti a castello per tredici persone, tra cui una donna an­ziana. È caldo e si sta bene all’interno, ma le condizioni di vita nel campo restano difficili: non c’è acqua calda, i bagni sono insufficien­ti. «Noi forniamo il cibo una volta al giorno, ma non basta – sottolinea Ivan Cheresharov, giovane referente della Caritas –. Queste persone hanno bisogno anche di cure mediche. Sono, inoltre, indi­vidui che hanno vissuto il trauma della guerra. Avrebbero necessità di un supporto psicologico». Inoltre, a differenza degli altri centri per rifugiati, il campo di Harmanli è chiuso da un pesante cancello: nessuno può uscire fino a quando non si saranno concluse le procedu­re burocratiche per la registrazione. Ma l’Agenzia per i ri­fugiati non ha personale a sufficienza per completare le procedure. Lentezza e mancanza di informazioni, fanno sa­lire la tensione tra i rifugiati. «Le condizioni variano da cam­po a campo – sintetizza Boris Cheshirkov, portavoce dell’Acnur a So­fia – ma tutti sono sovraffollati, mancano di personale, il cibo è scar­so, le cure mediche insufficienti. Riconosciamo gli sforzi fatti dal go­verno, ma siamo preoccupati per il freddo». Mentre Medici senza Frontiere (che è stata tra le prime Ong a lancia­re l’allarme sulle condizioni dei profughi di Harmanli) ha allestito un ambulatorio er trattare in loco i casi più urgenti. «Ci sono molti mi­nori non accompagnati, soprattutto siriani, donne incinte o con bam­bini molto piccoli, anziani con malattie croniche. Condizioni che li pon­gono in una situazione di particolare vulnerabilità», sottolinea il re­sponsabile, Stuart Zimble. Madina, intanto, aspetta i suoi documenti. E ringrazia chi (operatori e volontari) in queste settimane si è prodigato per accoglierli: «Ma noi abbiamo solo un sogno: andarcene. In Germania ho dei parenti. Que­sto è un Paese povero, non possono fare di più per aiutarci. E io voglio che i miei bambini abbiano un futuro».
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